Sono stati 1.192 i comuni interessati dalle elezioni amministrative dello scorso fine settimana, con 12 milioni di elettori chiamati alle urne (anche se quelli che hanno risposto all’appello sono stati molti meno). Le analisi si concentrano inevitabilmente sulle grandi città, Roma, Milano, Napoli, Torino, e sull’impatto che questi risultati potranno avere sulla politica nazionale. Eppure, le operazioni di voto hanno coinvolto città e paesi, anzi, in maggioranza questi ultimi: sono infatti ben 1.073 i comuni con meno di 15.000 abitanti al voto il 3 e 4 ottobre.
Sia chiaro, non c’è nulla di male a osservare i risultati dei grandi capoluoghi o delle città: Roma, Milano, Napoli e Torino contano da sole la metà del corpo elettorale delle ultime amministrative. Non solo: l’amministrazione locale di un capoluogo ha impatto anche su coloro che non ci vivono (e non votano), quindi la copertura mediatica e politica è senz’altro necessaria. Senza eccedere però.
Concentrandosi solo sul risultato dei grandi comuni si rischia infatti di affrettarsi a conclusioni non sostenute dai fatti: Pierfrancesco Maran, ad esempio, capolista PD a Milano, dopo la vittoria di Sala, ha commentato guardando alle regionali e dichiarando che, alla terza conquista consecutiva di Palazzo Marino, il centrosinistra potrebbe contendere alla destra leghista il governo regionale. Basterebbe guardare ai 236 comuni lombardi al voto per notare però che le compagini di destra hanno già eletto 42 sindaci, mentre il centrosinistra ne ha conquistati 21, la metà. Poi ci sono i ballottaggi: 6 con la destra in vantaggio, 4 con i democratici più avanti. E, infine, tutto quel che non si può cogliere senza vivere da vicino il territorio: 155 sindaci eletti in liste civiche non chiaramente riconducibili a forze politiche di destra o di sinistra. Sullo sfondo, stanno anche i 48 comuni in Lombardia in cui le consultazioni hanno riguardato un’unica candidatura: zero sfidanti, un sindaco per tutti. È davvero possibile guardare solo a Milano per lanciare la sfida in Regione?
La provincia, non solo in Lombardia, è il gigante ignorato dalla politica nazionale. E questo è un errore madornale. Poco più di un italiano su tre vive in città: il resto della popolazione risiede in comuni medi o piccoli o in aree rurali. 18 milioni di persone sono residenti in paesi con meno di 10mila abitanti e il 70% della popolazione vive in comuni con meno di 60mila abitanti. Si tratta di una realtà complessa, disomogenea eppure a tratti assimilabile: la provincia offre spesso forme privilegiate e rassicuranti di socialità, a ritmi rodati, consolidati, comunità in cui si conservano gruppi familiari e tradizioni, in cui spesso il dialetto rappresenta ancora una lingua non solo per gli anziani. Quando l’analisi politica si concentra solo sulle grandi città, il rischio è di ignorare che esiste un mondo alla loro periferia, troppo diverso per essere omogeneo ma anche troppo popoloso per essere trascurato.
Si perde di vista che la provincia, così ignorata e indecifrabile, costituisce comunque la maggior parte del territorio nazionale e ospita la maggior parte della popolazione, e se da un lato deve subire decisioni politiche spesso senza poterle condizionare, ad esempio in materia di opere pubbliche, dall’altro lato può essere terreno di coltura per affari sporchi e criminalità organizzata.
Nei comuni con meno di 15mila abitanti, il consiglio comunale è eletto con un sistema maggioritario: alla lista del sindaco vengono assegnati i due terzi dei consiglieri, mentre il restante terzo è diviso tra le rimanenti liste (qualora siano più d’una) con il metodo d’Hondt. Si tratta di un sistema che intende evitare veti incrociati e situazioni di stallo nell’amministrazione locale, ma che di fatto assegna un potere pressoché assoluto nella gestione degli affari comunali per i quattro anni successivi, a fronte di differenze di voti relativamente contenute. Come è stato notato rispetto al Nord Italia dall’Osservatorio sulla Criminalità organizzata dell’Università degli Studi di Milano, alla ‘ndrangheta i piccoli comuni "consentono avanzate più invisibili e impunite, e vi si produce più velocemente una condizione di assuefazione e di omertà ambientale". In un sistema simile, la lista del sindaco, con maggioranza assoluta assegnata per legge, può ad esempio modificare i piani di governo del territorio (quelli che un tempo si chiamavano piani regolatori), retribuendo chi ha portato voti attraverso l’assegnazione di diverse destinazioni d’uso di fondi e terreni, facendo cassa con gli oneri di urbanizzazione o saldando alleanze clientelari spesso tramite cemento e consumo di territorio.
A prescindere dalla colonizzazione mafiosa, osservare la provincia non significa solo cercare di comprenderla antropologicamente, né l'esercizio può essere utile per calcoli elettorali, comunque già distorti dal confronto tra voto locale e nazionale. Il punto è che anche in provincia esistono cittadini: l’analisi politica che si ferma alle città dimentica gran parte del popolo, quello a cui, nelle forme e nei limiti della Costituzione, appartiene la sovranità, un popolo che ha bisogni e diritti, tra cui quello di voto. E il popolo che si sente trascurato spesso finisce per disaffezionarsi, astenendosi, o per votare protestando, premiando il vittimismo, il messaggio di propaganda più diretto, il politico che si presenti come "uno di noi", semplice, tradizionale, che ne colga le emozioni di base, le paure e le indirizzi a suo vantaggio. E mentre nei talk show si discute solo dei ballottaggi di Roma e Torino e dei risultati di Milano e Napoli, quegli stessi commentatori politici si mostreranno interdetti dai risultati delle prossime politiche, perché non c'è sguardo fuori dalla città e la provincia resta così la grande incompresa di ogni consultazione, ignorata e influente.