Aldo Moro: il sogno, la solidarietà e la disillusione
Nella storia di ogni paese ci sono immagini che condensano i momenti più forti vissuti dall'intero spirito nazionale (come vi raccontiamo in altre storie italiane), momenti in cui la totalità della cittadinanza si è stretta per far fronte comune, condividendo un'idea, un dolore, una gioia, una speranza. Immagini che lasciano un'impronta anche nelle generazioni successive che, vedendone una foto oppure un filmato, ricordano l'accaduto, studiato dai libri o visto nei documentari e ne sentono ancora l'intensità, la forza, la felicità, la disperazione.
Una di queste immagini è quella del Presidente Aldo Moro: il suo volto dall'espressione imperscrutabile, mentre viene fotografato con alle spalle il vessillo dei suoi sequestratori, le Brigate Rosse; pochi giorni dopo il triste momento del ritrovamento del suo cadavere in Via Caetani nel baule posteriore della Renault 4 rossa. Sebbene si possa averne un'idea, riesce difficile immaginare per chi non c'era, cosa abbiano significato non, certamente, solo per il governo, ma per l'intera popolazione italiana quei 55 giorni di prigionia del Presidente del Consiglio: si tratta, infatti, di un evento talmente difficile da collocare idealmente nella storia di una grande democrazia occidentale, che con difficoltà si può cercare di immaginare stati d'animo.
Senza dubbio una prova della particolarità del paese Italia che, in un periodo di forti tensioni interne e di crisi internazionale, si confrontava con forze interne che miravano a sfaldarne l’unità ed a minarne la (presunta e controversa) stabilità democratica: ecco che in tale contesto il compromesso storico mai attuato, sarebbe stato un momento di dialogo e di pieno rispetto dei voleri di un popolo che aveva voglia di un cambiamento e lo dimostrava votando in numero massiccio per il PCI. Un compito arduo che Aldo Moro si era preposto con rigore ed estrema determinazione, destinato purtroppo a naufragare, posto anche che la "solidarietà nazionale" non era un motore sufficiente a motivare tutte le parti, sebbene il PCI avesse già preso le distanze dall'Unione Sovietica con lo "strappo di Mosca" di Enrico Berlinguer: altri erano, come sempre, gli interessi in gioco.
Il sequestro e l’omicidio di Moro sono stati, oltre che un momento di dolore, un'occasione perduta per la nostra democrazia. Le sue tragiche immagini sono simbolo di tutto quello che ha significato la morte del Presidente salentino: la fine definitiva della prospettiva di un dialogo, il prevalere massiccio delle forze conservatrici e democristiane, l'emarginazione progressiva del PCI e la conferma di una piena e a prima vista acritica adesione alle politiche "occidentali". Più semplicemente, il brutale risveglio da un bel sogno di un Paese ancora in cammino per diventare una completa democrazia (un viaggio ancora lungo, verrebbe da aggiungere…).
La scelta della famiglia di non celebrare le pubbliche esequie dello statista derivò dalla persuasione, da parte di chi gli era vicino, che lo Stato poco o niente avesse fatto per cercare di far liberare il Presidente: vero o meno che fosse, è innegabile che, grazie a questo terribile evento, una classe di privilegiati poté continuare indisturbata nel proprio cammino, lasciando morire il progetto di "solidarietà nazionale", sacrificando così anche la memoria del grande uomo.
Tuttavia resta il fatto che, con o senza ipocrisia, questa pagina della storia ha commosso e spinto tutti verso la riflessione sul nostro paese e sulla nostra appartenenza; e l'idea di quel Presidente dall'espressione pensosa, nato nel profondo Sud che voleva unire e far comunicare le parti di un paese sempre diviso, resiste al tempo e alle bassezze di chi ha visto la propria condizione migliorare con la sua morte. Ecco perché è necessario ricordarsi di Moro, allorché ci accingiamo a festeggiare i 150 anni dell'Unità Nazionale: per essere davvero uniti, a dispetto delle tante voci discordi che, dai nostri odi e dalle nostre separazioni interne, hanno tanto, tanto da guadagnare. Divide et Impera.
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