Che qualcosa fosse cambiato all'interno del Partito Democratico, dopo il naufragio dell'avventura elettorale di Bersani e dopo il doloroso abbraccio delle larghe intese, era abbastanza evidente. Così come era apparso fin da subito chiaro come una grande parte degli elettori e dei militanti democratici considerasse Matteo Renzi la "sola speranza di riscatto" dopo il tonfo delle politiche e la constatazione delle divisioni interne che avevano reso il Pd incapace persino di sostenere Romano Prodi nella corsa per la Presidenza della Repubblica. Un po' meno prevedibili erano le dimensioni del consenso che in questi giorni sembra raccogliere il Sindaco di Firenze. Non solo fra militanti, elettori e "simpatizzanti" (termine sul quale ci sarebbe da riflettere in effetti), è questa la novità. Già, perché su Renzi stanno convergendo anche big o presunti tali del partito: in gran parte provenienti dall'area che ne ha osteggiato la candidatura alle primarie di novembre – dicembre 2012.
Da ultimo è stato Dario Franceschini, considerato uno dei registi (e se non altro fra i più strenui difensori) delle larghe intese, ad anticipare di essere pronto a sostenere il Sindaco di Firenze, ma l'elenco è lungo e in costante aggiornamento. Un elenco che peraltro rivela una volta di più quanto il dualismo tra gli ex diessini e gli ex popolari sua superato nei fatti (e da tempo, aggiungeremmo): con Renzi Veltroni, Serracchiani, Fassino, Fioroni, Bettini, oltre a Gentiloni, Scalfarotto (che lo sostengono da tempo). Insomma, da candidato osteggiato dal 95% del gruppo dirigente, da generica "risorsa" (come ricorda Sofri sul suo blog), da fascistoide, da populista e demagogo, a carta vincente per il Congresso e per le prossime elezioni.
Un cammino trionfale, dunque? Niente affatto e Renzi lo sa bene. Perché il Sindaco di Firenze non deve e non può farsi risucchiare dallo stesso meccanismo che ha stritolato prima Veltroni e poi Bersani. E soprattutto perché Renzi non può permettersi che passi il messaggio di una "rottamazione finita ancor prima di cominciare". Non a caso nelle sue partecipazioni alle Feste Democratiche ha insistito sul tema della contrapposizione tra un "approccio vecchio, basato su logiche correntizie e divisioni strumentali" e un'apertura di senso che "restituisca il partito" a militanti ed elettori. Del resto, come ricorda Menichini su Europa, l'occasione è di quelle irripetibili e non può essere sprecata: "I segnali di una specie di ondata in favore del sindaco di Firenze sono tanti, e vengono da due mondi che a Renzi stanno sicuramente più a cuore della nomenklatura democratica: il popolo delle Feste, integrato come numero e come entusiasmo da molti cittadini esterni all’elettorato Pd; e l’esercito di sindaci e degli amministratori locali, la vera rete di potere sulla quale Renzi appoggerà la propria campagna e, in prospettiva, la rifondazione del partito".
Senza dimenticare gli ostacoli "politici" veri e propri. In primo luogo, il dualismo con Letta, che al netto di ricostruzioni più o meno interessate, non può essere nascosto né derubricato a questione minore (siamo davvero sicuri che il Presidente del Consiglio accetterà ruoli di secondo piano, soprattutto se la sua reggenza a Palazzo Chigi incontrasse il favore degli italiani?). In seconda battuta, la ricostruzione del fronte dei bersaniani – dalemiani, che punta su Cuperlo e che paradossalmente potrebbe essere agevolata dalla polarizzazione dello scontro. Infine, il modo in cui Renzi si rapporterà ad una delle aree più vive e vitali del movimento democratico, quella che fa riferimento a Pippo Civati e che in questi mesi ha avuto il merito di tenere alto "l'onore" del Partito tra i militanti, manifestando con nettezza la propria contrarietà alle larghe intese (e non solo). Un'area che probabilmente non è ancora in grado di rappresentare una reale e concreta alternativa (e non è solo una mera questione numerica) ma che per una forza di centrosinistra moderna rappresenta un patrimonio irrinunciabile.