All’indomani del primo turno delle amministrative, alcuni commentatori e alcune commentatrici hanno analizzato il numero delle donne presenti nelle liste e quelle che si sono candidate alla carica di sindaca. Come riporta Martina Castigliani su Il Fatto Quotidiano, su “ 6 capoluoghi di Regione che vanno al voto sono appena 18 su 73 candidati, che diventano appena 30 su 162 se consideriamo anche gli altri 14 capoluoghi di Provincia”. Se il Movimento 5 Stelle esprimeva 7 candidature femminili (tra cui le sindache di Roma, Milano e Torino) e la coalizione di centro-destra ne esprimeva due, il Partito Democratico non ne ha espresso nessuna. Non è andata meglio sul fronte delle liste: “ su 13.281 candidati totali alle assemblee dei medesimi 17 Comuni capoluogo – scrive Claudio Bozza sul Corriere – le donne in corsa erano 5.956 (44,9%), mentre gli uomini 7.325 (55,1%)”.
A commentare questi dati è stata chiamata Elly Schlein, vice-presidente della regione Emilia Romagna che alle scorse regionali ha sostenuto Stefano Bonaccini. Schlein ha dichiarato al Corriere che “il problema è che non ci sono state donne candidate sindaco. Questo vale per tutti, ma è più grave che avvenga nel centrosinistra”. È evidente che a sinistra c’è un problema di genere: a Bologna, dove Emily Clancy di Coalizione Civica ha fatto registrare un record di preferenze, c’è stata una donna che ha chiesto e ottenuto delle primarie che sono risultate molto contese, Isabella Conti di Italia Viva. Conti, sindaca di San Lazzaro in Savena, comune vicino Bologna, ha perso 40% contro il 60% di Lepore e ha combattuto la sua battaglia, mentre a Roma la senatrice Monica Cirinnà ha ritirato la sua candidatura dopo che Roberto Gualtieri ha annunciato di voler correre alla carica di sindaco. Oggi è il centro-destra ad esprimere l’unica leadership femminile, Giorgia Meloni di Fratelli d’Italia, e se è vero come fa notare Schlein che “c’è differenza fra leadership femminile e femminista” è anche vero ed è sotto gli occhi di tutte e tutti che le donne progressiste non stanno contendendo la leadership dei maschi. Al contrario, come nel caso di Schlein, Cirinnà e Clancy, cercano in tutti i modi di favorire l’elezione dell’uomo al potere. Chiariamoci, non c’è niente di male: se si ritiene che la persona più adatta ad amministrare una città, a guidare un partito o a governare una persona sia un uomo e non una donna, è giusto sostenerla. Fa impressione però constatare che a sinistra la persona più adatta è sempre un uomo.
Kamala Harris prima di accettare l’offerta di Joe Biden di fargli da vice, ha combattuto e perso le primarie che vedevano in campo anche la senatrice Elizabeth Warren; lo stesso non si può dire di Schlein e Clancy o di Cirinnà. E allora mi chiedo: come possiamo dirci femministe se non sfidiamo la leadership maschile ma, al contrario, facciamo di tutto affinché uomini di apparato conservino le loro posizioni di privilegio?
Se è vero poi che c’è differenza tra leadership femminile e leadership femminista, è anche vero che se il femminismo rimane una lista di buone intenzioni non è femminismo; è come se le donne di sinistra stessero stilando una lunga lista della spesa senza andare al super-mercato. I femminismi sono anche teoria, ma se ci si candidata o si fa politica quelle buone pratiche devono diventare fatti, azioni, sfide, perché il maschilismo non si farà da parte se non ci sarà qualcuno pronto a sfidarlo.
Se è vero che Giorgia Meloni certamente non sarà tra i modelli delle donne che si riconoscono nei valori del centro-sinistra, mi chiedo che senso ha invece proporre a modello donne che non hanno il coraggio di sfidare il potere e prenderselo a rischio di scontentare i maschi di turno.
Elly Schlein, eletta all’Europarlamento col Partito Democratico per poi passare a Possibile, ora è alla guida di un movimento chiamato Coraggiosa con cui si è anche presentata alle ultime regionali ottenendo un grande risultato in termine di consensi. Schlein si è dimostrata coraggiosa quando ha sfidato Salvini chiedendogli conto delle sue numerose assenze in Europa quando si trattava di occuparsi di immigrazione; ma per vincere la guerra dei sessi non basta lottare contro il nemico esterno, occorre anche prendere di peso gli avversari interni se tra i nostri ideali figura la parità di genere.
Nel Partito Democratico c’è un enorme problema di sessismo e a sinistra del Pd le cose non vanno meglio: durante la formazione del governo Draghi, l’allora segretario Nicola Zingaretti non espresse nemmeno una ministra; una volta insediato, Enrico Letta pretese che i portavoce di Camera e Senato fossero donne ma a scegliere furono i capi-corrente, rigorosamente uomini.
Insomma, dati alla mano, la sinistra è un ricettacolo di uomini e pratiche maschiliste. E alle donne di partito, spiace dirlo, sembra andare bene così.