Ci sono diverse correnti di pensiero sul perché Matteo Salvini abbia scelto di appoggiare il tentativo di Mario Draghi: si va dal “pressing vincente di Giorgetti” alla volontà di partecipare alla gestione dei fondi del NextGenEU, passando per la volontà di tagliare fuori definitivamente Giuseppe Conte dalla scena politica per arrivare a letture che sconfinano in dietrologia e complottismo (il presunto accordo con Renzi o addirittura con gli anti-contiani del M5s). La svolta del leader leghista, in effetti, necessita di qualche considerazione di senso, dal momento che non sembra essere coerente non solo con la collocazione politica del suo partito, ma neanche con quanto detto sia a Mattarella che a Fico nel corso delle consultazioni (tralasciamo le valutazioni specifiche sulla figura di Mario Draghi espresse in più di un’occasione da Salvini e da altri esponenti leghisti di primo piano).
Partiamo da un principio di realtà: il governo Draghi non è un’opzione come le altre, ma nasce da una precisa decisione del Capo dello Stato. Con le parole pronunciate al termine dell’esplorazione di Roberto Fico, infatti, Mattarella aveva presentato ai partiti una non – scelta, richiamandoli alla responsabilità ed escludendo il ricorso a elezioni anticipate. Il governo Draghi non è un’opzione, è un fatto, che si è imposto come tale in virtù della debolezza intrinseca dei partiti della fu maggioranza Conte, dell’assenza di alternative valide in Parlamento, della totale indisponibilità a votare di Forza Italia e, non in subordine, dell’aura di misticismo / messianismo intorno alla figura dell’ex governatore della Banca Centrale Europea. Draghi è (diventato) ineluttabile. E l'opinione pubblica lo ha accolto come una specie di salvatore, anche grazie al fatto che si tratta del politico che come la migliore stampa dai tempi di De Gasperi.
È questo il contesto in cui Salvini ha dovuto prendere una decisione, non un momento X nel quale poter giocare le proprie carte in modo coerente o quantomeno rispondente ai desiderata del proprio elettorato. Sulla bilancia sono finite da un lato la possibilità di mettersi all’opposizione e cannoneggiare ripetutamente Draghi assieme a Giorgia Meloni, dall’altro la partecipazione a un governo chiamato a gestire la fase più delicata della storia recente, con tante responsabilità ma anche con una montagna di soldi a disposizione. Scegliere la prima strada avrebbe significato scommettere sul fallimento del progetto di Draghi, che però è stato presentato (e forse lo è davvero) come l’ultima spiaggia per il Paese intero: un posizionamento davvero problematico per chi aspira a guidare l’Italia al prossimo giro elettorale. Detto in altri termini, Salvini ha scelto di ragionare da leader della coalizione maggioritaria nel Paese e, memore del disastro del Papeete, di calibrare attentamente le proprie mosse in un momento così delicato, rinunciando forse alla libertà di manovra che la nascita dell’esecutivo “ammucchiata” regalerà a Meloni per aumentare il consenso tra una certa parte di elettorato, ma accreditandosi come forza affidabile verso quei settori e quegli ambienti che ancora vedono in Forza Italia l’unica loro garanzia all'interno del centrodestra.
In tale ottica, Salvini ha capito quanto fosse fondamentale entrare nei processi decisionali (e distributivi) delle risorse del NextGenEU, anche solo per presentarsi come interlocutore di quel mondo finanziario e produttivo che aspetta il Recovery Plan come manna dal cielo dopo un anno terribile. Chi aspira sul serio a guidare il Paese, insomma, non può restare sulle barricate quando il Capo dello Stato chiede al suo “uomo migliore” di impostare la ripartenza e il futuro dei prossimi decenni. Certo, da qui a toccare sul serio palla ce ne passa, ma Salvini non poteva far altro che salire sul carro di Draghi.
Anche perché, chiamarsi fuori dalla contesa avrebbe significato lasciare il governo nelle mani della “coalizione Ursula”, ovvero sostanzialmente la vecchia maggioranza con l’ausilio di Forza Italia e di tutta l’area centrista: un modello vincente in Europa che col tempo (soprattutto nel caso di successo della reggenza Draghi) si sarebbe potuto consolidare anche in Italia, rompendo l’unità del centrodestra e relegando nell’angolo Salvini e Meloni. Rompere il cerchio che si stava stringendo intorno a Draghi, farlo senza porre alcuna condizione, comporta poi che siano gli elettori degli altri partiti a dover ingoiare il boccone amaro della presenza della Lega nell’esecutivo, non il contrario. Il PD, ad esempio, è stato prima costretto a ritirare il veto posto (in maniera goffa e frettolosa), poi a raccontare quella di Salvini come una conversione europeista e moderata, spingendosi fino a un passo dalla riabilitazione del leader leghista come politico accorto e responsabile. Il sì leghista a Draghi indebolisce anche il centrosinistra, visto che l'alleanza PD-M5s stava trovando nell’anti-salvinismo un fattore di coesione e di superamento di distanze e incongruenze ideologico-programmatiche.
Tra l'altro, Salvini sa perfettamente di non essere ancora pronto per affrontare e vincere una campagna elettorale in questo clima. Troppe incognite interne all’alleanza (l’eredità di Berlusconi e l’imprevedibilità di Meloni), troppe incertezze sulla stabilità e sulla forza finanziaria della Lega, troppo acerba la sua squadra, troppo flebili i legami con la comunità internazionale. Meglio attendere, insomma. Tanto, a scendere dal carro di Draghi c’è sempre tempo. Perché, in fondo, se c’è una parola di cui gli italiani ignorano il significato è coerenza.