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A che serve che Meloni si dichiari antifascista se la sua azione di governo non lo è?

La leader di Fratelli d’Italia fatica a celebrare con spontanea sincerità la festa della Liberazione, ma la linea politica del suo esecutivo è ormai piuttosto esplicita e in inquietante continuità con il passato.
A cura di Roberta Covelli
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Il 25 aprile, festa della Liberazione dal nazifascismo, non è la celebrazione più amata da chi si ostina a esibire ancora la fiamma tricolore nel simbolo del partito. Giorgia Meloni sembra non fare eccezione. Cresciuta nel Fronte della Gioventù del Movimento Sociale Italiano, la leader di Fratelli d’Italia si limita a partecipazioni istituzionali, elude ogni assunzione politica di responsabilità, celebra la ricorrenza con formule vaghe e richiami generici ai valori democratici.

Nel 2023, al suo primo 25 aprile da presidente del Consiglio, aveva inviato una lettera al Corriere della Sera, citando Silvio Berlusconi per riproporre la sua trovata di trasformare la celebrazione della Resistenza in una "festa della libertà". Nel 2024 aveva risposto infastidita a un giornalista che le chiedeva se si dichiarasse antifascista: "Quello che ho, che avevo da dire sul fascismo l’ho detto cento volte e non ritengo di doverlo ulteriormente ripetere. Poi voi potrete così continuare a riempire i titoli dei vostri giornali sostenendo che sono una pericolosa fascista".
E quest'anno, nel 2025, in un 25 aprile segnato dal lutto nazionale per la morte di Papa Francesco e dagli inviti alla sobrietà di membri del suo governo, Meloni ha scelto la via della disintermediazione, con un post sui social.

Non è il caso di soffermarsi sull’esegesi: ancora una volta si parla di "ritrovata libertà" — come se la libertà fosse piovuta dal cielo — e si condanna "ogni forma di totalitarismo, autoritarismo e violenza politica", per evitare di concentrare il biasimo sulla dittatura che ha schiacciato l'Italia.
Il problema non è (solo) l’ambiguità retorica: è la coerenza politica. Proprio nella sua azione di governo Meloni mostra una fedeltà — fattuale prima ancora che ideologica — a tratti fondamentali del fascismo, che non è stato solo olio di ricino e manganello, ma si è basato su una concezione della politica sprezzante verso la persona, il diritto, il conflitto.

Persona, diritto, conflitto: dalla negazione fascista all’attuazione democratica

Per cogliere appieno questa continuità politica, occorre infatti partire da tre questioni essenziali che l’antifascismo ha riconosciuto e reso costituenti, in polemica con il regime mussoliniano: la concezione della persona, la funzione del diritto, il riconoscimento del conflitto.

La persona, prima. Nella dottrina del fascismo del 1932 (firmata da Benito Mussolini ma scritta da Giovanni Gentile), si chiarisce che l'individuo non esiste se non "nel gruppo familiare e sociale, nella nazione e nella storia". L’essere umano è annullato nella collettività organizzata, ridotto a funzione di un progetto politico totalizzante. In democrazia, invece, la persona precede lo Stato: esiste, ha una dignità individuale e collettiva, umana e profonda. È questa la radice dell’uguaglianza, delle libertà, della tutela dei diritti fondamentali.

Il diritto, poi. Sotto il fascismo, la legge sopravvive come apparenza, ma viene svuotata di sostanza. Per citare Piero Calamandrei, il fascismo si reggeva sulla "legalità adulterata", su una "truffa giuridica organizzata d’autorità", su un "illegalismo autorizzato a farsi beffa delle leggi". In democrazia, invece, la legge è limite e garanzia. Non basta la forza del numero, né vincere le elezioni equivale a comandare senza freni: il principio maggioritario non può mai trasformarsi in tirannia, perché la sovranità è esercitata "nelle forme e nei limiti della Costituzione".

Il conflitto, infine. Nel fascismo, ogni divergenza è tradimento, ogni devianza è da reprimere, ogni dissenso da punire. La pluralità è soppressa in nome di un'unità pacificata e imposta, una concordia obbligatoria. In democrazia, invece, il conflitto è riconosciuto come fisiologico, ed è anzi il segno della diversità, del pluralismo, della libertà di pensiero.

Dalla povertà all’Albania: la deumanizzazione a fini propagandistici

La dignità della persona riguarda anche, se non soprattutto, gli individui e le categorie più vulnerabili. Risulta quindi difficile non cogliere tratti di continuità con il funzionalismo fascista ad esempio nella retorica contro il reddito di cittadinanza. L’abolizione della misura, uno dei primi atti del governo Meloni, ha avuto come effetto rendere più povere 850mila famiglie, e risponde a una scelta propagandistica che descrive le persone che contano sui sussidi come improduttive, fannullone, non meritevoli, in una costante contrapposizione con il "lavoro".

Una logica simile si è vista nell'uso elettorale della paura: durante la campagna elettorale del 2022, esponenti di Fratelli d’Italia hanno diffuso sui social il video, con audio integrale, di uno stupro avvenuto a Piacenza, utilizzando la violenza su una donna come strumento di propaganda securitaria, in violazione della dignità della vittima stessa.

O, ancora, l’accordo con l’Albania per trasferire naufraghi stranieri fuori dal territorio italiano, per il disbrigo delle pratiche di richiesta di asilo e di protezione internazionale. Navi militari in favore di telecamera hanno trasportato poche decine di migranti da una costa all’altra, con un approccio propagandistico che spersonalizza gli individui, trattandoli come problemi logistici da spostare altrove, piuttosto che come soggetti portatori di diritti.

In ciascuno di questi casi non si è operato su persone, ma su categorie deumanizzate: vittime non solo di indifferenza, come troppo spesso accade anche nelle dinamiche della politica democratica, ma ridotte a figure retoriche, a personaggi stereotipati da usare nella costruzione della propaganda.

L’attacco alle sentenze, ai giudici, al diritto e ai diritti

Non si tratta solo di una questione di narrazione: la logica della spersonalizzazione si salda a una concezione autoritaria del diritto e della giustizia. Lo dimostra il braccio di ferro seguito alle prime deportazioni in Albania: alle prime decisioni giudiziarie critiche il governo ha risposto non già correggendo le proprie scelte, ma emanando nuove norme, come il decreto sui cosiddetti "Paesi sicuri", nella speranza di imporre la propria linea, a prescindere dal diritto interno e internazionale.

Non è un caso isolato. Già quando i tribunali avevano disapplicato i decreti del governo, in quanto contrari alle norme internazionali rispetto al trattenimento dei richiedenti asilo, contro la magistratura si erano sollevati attacchi durissimi dalla destra al potere.

Il diritto internazionale è tra l'altro una delle vittime della retorica (e dell’azione di governo) meloniana: dall’illegittimo decreto Piantedosi sul "carico residuale" al rimpatrio con aereo di Stato del torturatore libico Almasri, passando per le ambiguità sull’esecutività dei mandati di arresto spiccati dalla Corte Penale Internazionale contro Putin e Netanyahu, il governo Meloni ha trattato in più occasioni la giustizia sovranazionale come un fastidio più che come uno strumento di garanzia dei diritti.

Che sia contro sentenze nazionali o contro princìpi di diritto internazionali, il filo rosso (o forse nero) è sempre lo stesso: rifiutare il diritto come limite al potere, sostituendo all'argomentazione giuridica (che spesso difende i diritti delle minoranze) il primato della maggioranza e la pancia dell'elettorato. In questo modo si ripropone quella "legalità adulterata" di cui parlava Calamandrei, una facciata di formalismo giuridico dietro cui si consuma la negazione dei diritti.

Dalla negazione del conflitto alla repressione del dissenso

Questa legalità adulterata non si limita a eludere le garanzie, ma sposta i vincoli, piegando la legge alle esigenze del governo, rendendola uno strumento per consolidare il potere, anche a costo di tradire i principi stessi del diritto.

Un esempio è la produzione normativa in chiave repressiva e securitaria. Il primo atto del governo Meloni è stato il decreto anti-rave, con l’introduzione di un fumoso reato di raduno musicale, cui sono seguiti il decreto Cutro, con il delitto di "Morte o lesioni come conseguenza di delitti in materia di immigrazione clandestina", e il decreto Caivano, contro il quale sono state sollevate già diverse questioni di legittimità costituzionale.

A questo si aggiunge il decreto sicurezza, approvato dal governo per scavalcare il dibattito parlamentare sull’omologo disegno di legge. La misura introduce nuove fattispecie di reato tese a comprimere la libertà di manifestazione e di dissenso, ad esempio criminalizzando il blocco stradale e punendo le proteste in carcere e nei CPR come rivolte.

Difficile non vedere in questa concezione dell’ordine pubblico un'altra eredità del pensiero fascista, ossia la negazione del conflitto. Sul punto, Giorgia Meloni ha pronunciato un discorso all'assemblea nazionale della CISL in palese continuità con l’esperienza corporativista.

La visione del sistema sindacale, sotto il fascismo, è stata infatti di repressione, prima, e di silenziamento, poi. Se il regime inizia con gli squadristi che picchiano, perseguitano e uccidono scioperanti e sindacalisti, dopo l'insediamento di Mussolini si prosegue con lo stesso astio verso le rivendicazioni dei lavoratori. Tra il 1925 e il 1926, vengono soppressi i sindacati e le associazioni di categoria antifasciste, e si proibisce lo sciopero, che diventerà persino un delitto con il codice penale Rocco. Si istituisce quindi il sistema corporativo, specchio del funzionalismo fascista: le corporazioni riuniscono, per ogni categoria, rappresentanti degli imprenditori e dei lavoratori, in una concordia obbligatoria in cui finisce per prevalere l’interesse di chi ha un ruolo dominante.

La viva voce di Meloni ha spiegato che occorre "su tutto rifondare la dinamica tra impresa e lavoro, superando una volta per tutte quella tossica visione conflittuale che anche nel mondo del sindacato qualcuno si ostina ancora a sostenere. Ricostruire la dinamica tra imprese e lavoro significa gettare le fondamenta di una nuova alleanza tra datori di lavoro e lavoratori, fondata sulla condivisione degli oneri e degli onori".

Il governo Meloni non è antifascista, e non per via delle mancate dichiarazioni

Per chi conosca la storia del diritto del lavoro e del diritto sindacale, e abbia presente gli studi corporativistici del Movimento Sociale Italiano prima, e di Alleanza Nazionale poi, le parole di Giorgia Meloni sulla "tossica visione conflittuale" e sulla "nuova alleanza" sono più esplicite delle mancate dichiarazioni di antifascismo degli ultimi anni.

La richiesta di chiarire se l’attuale maggioranza sia, o meno, antifascista è allora una preghiera di ipocrisia o una confessione di mancata comprensione: i valori fondanti e le linee di sviluppo del governo Meloni sono evidenti e ormai non equivocabili.

Se riconosciamo il valore storico e costituente dell’antifascismo, non possiamo allora ignorare come un governo che non sa celebrare sinceramente la Resistenza finisca per svilire le persone, adulterare il diritto, negare il conflitto. In altre parole, come replichi con disinvoltura pratiche politiche già vissute, già patite, già dichiarate inaccettabili. Non servono dichiarazioni di antifascismo, ma una politica che rispetti, nella forma e nella sostanza, i principi fondativi della nostra democrazia, che tuteli i diritti fondamentali, che riconosca e garantisca la pluralità e il dissenso.

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Nata nel 1992 in provincia di Milano. Si è laureata in giurisprudenza con una tesi su Danilo Dolci e il diritto al lavoro, grazie alla quale ha vinto il premio Angiolino Acquisti Cultura della Pace e il premio Matteotti. Ora è assegnista di ricerca in diritto del lavoro. È autrice dei libri Potere forte. Attualità della nonviolenza (effequ, 2019) e Argomentare è diabolico. Retorica e fallacie nella comunicazione (effequ, 2022).
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