Tutto giusto e tutto bellissimo, il piano nazionale di ripresa e resilienza presentato da Mario Draghi. Del resto, difficile dire qualcosa di diverso quando ti arrivano 191,5 miliardi in prestito agevolato dall’Unione Europea, e ti viene permesso – nonostante un debito grande una volta e mezzo il PIL – di aggiungerne altri cinquanta e più. Tutto giusto e tutto bellissimo, ancora di più, se si parla di soldi al sud e alla scuola, ai giovani e alle donne, di transizione ecologica e di innovazione digitale, di riforme sacrosante come quella della giustizia e della pubblica amministrazione, di banda larga e di infrastrutture.
Tutto giusto e tutto bellissimo, ma anche no. Perché quel piano di ripresa e resilienza, 335 pagine fitte di progetti e programmi e capitoli di spesa che coprono i prossimi sei anni, è arrivato in parlamento il 26 di aprile, e al netto di piccole proroghe, dovrà essere inviato in Europa il 30 di aprile. E da quelle 335 pagine, una volta approvate, spedite e vidimate da Bruxelles, non si potrà derogare, pena la perdita dei soldi europei.
Tutto giusto e tutto bellissimo, ma lì dentro ci sono tante cose, tutte assieme, che forse avrebbero meritato un pizzico di discussione in più. Qualche esempio: ha senso puntare tutto sul trasporto ferroviario (pagina 202) se nemmeno sappiamo se tra dieci, vent'anni anni ci saranno ancora i treni – o le linee ad alta velocità come le conosciamo oggi – o viaggeremo sull’Hyperloop o su auto elettriche con l’autopilota? Ha senso cambiare le regole sugli appalti (pagina 84), tra cui anche quelle relative alle certificazioni antimafia, sapendo che proprio questa maxi tornata di appalti scatenerà i peggiori appetiti della criminalità organizzata? Ha senso parlare di transizione verde e tagliare drasticamente i processi delle valutazioni d’impatto ambientale per piccole e grandi opere (pagina 87), tanto più in un Paese a rischio sismico e idrogeologico come l’Italia? E ancora: ha senso un piano di assunzioni di massa nella pubblica amministrazione, nel contesto di una sua profonda e radicale digitalizzazione? E infine, che succederà ai conti pubblici dell’Italia, al suo welfare, alla sostenibilità del suo sistema previdenziale se il piano Draghi non darà i frutti sperati?
Non abbiamo risposta a queste domande, né tuttavia avremo un dibattito parlamentare finalizzato a eviscerare ciascuna di queste questioni, come dovrebbe essere in una democrazia rappresentativa. Il tempo delle chiacchiere è finito, direte voi. L’emergenza chiama, aggiungerete. E di fronte a 248 miliardi non si dovrebbe nemmeno discutere, chioserete. Dura darvi torto. Ma è dura anche accettare che il destino di questo Paese per i decenni a venire sia stato deciso tra il 26 e il 30 aprile del 2021, senza uno straccio di dibattito parlamentare degno di questo nome, da un governo tecnico o del presidente sostenuto da tutte le forze politiche tranne una, nel pieno di un’emergenza sanitaria che ha fisiologicamente rivolto altrove le attenzioni della pubblica opinione.
Tutto giusto e tutto bellissimo, quindi. Ma anche tutto drammaticamente deciso altrove. Forse, con questo piano, ricostruiremo il Paese. Di sicuro, da domani, dovremo pure ricostruire la nostra democrazia, che già non se la passava tanto bene.