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20 secondi sono troppi per sottrarsi: così la giustizia rafforza gli stereotipi sulla violenza sessuale

Secondo i giudici 20 secondi sarebbero “troppi” per indicare con chiarezza il proprio dissenso e un sindacalista denunciato da una hostess per una violenza avvenuta sul luogo di lavoro è stato assolto. È arrivata l’ora di un cambiamento culturale sul concetto di consenso, per evitare il rischio che questi processi passino dall’obbligo della vittima di provare di aver resistito alla violenza, a quello di provare non aver dato il consenso, mantenendo però la donna sul banco degli imputati.
A cura di Jennifer Guerra
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Ancora una volta, la durata di una violenza sessuale è stata determinante per l’assoluzione di un imputato. Tutti ricordano il caso eclatante del bidello di Roma che aveva palpeggiato una studentessa minorenne e che era stato assolto lo scorso anno perché la molestia era durata solo una “manciata di secondi”. Ora è il tempo di reazione della donna ad aver determinato l’assoluzione dell’imputato, un sindacalista denunciato da una hostess per una violenza avvenuta sul luogo di lavoro: secondo i giudici della Corte d’Appello di Milano, 20 secondi sarebbero “troppi” per indicare con chiarezza il proprio dissenso.

In primo grado, il tribunale di Busto Arsizio aveva confermato la violenza sessuale, testimoniata anche da alcune colleghe della hostess che avevano riferito di comportamenti simili da parte del sindacalista, ma lo aveva assolto perché l’uomo non aveva compiuto “alcun costringimento fisico della vittima”, che avrebbe impiegato più di 20 secondi a reagire “senza manifestare nessun dissenso”, pur essendo nelle condizioni di andarsene perché la porta della stanza era aperta. Una versione confermata dal tribunale d’appello di Milano, contro la quale l’associazione Differenza Donna, che ha seguito il caso, annuncia ricorso in Cassazione.

La violenza, insomma, c’è stata anche secondo i giudici e la hostess non sarebbe l’unica vittima dei comportamenti del sindacalista. Che però non si può condannare perché la legge sulla violenza sessuale si basa ancora su una visione coercitiva della violenza, che la riconosce solo in presenza di un atto di forza da parte dell’aggressore e di una reazione inequivocabile della vittima. In realtà, come ha ricordato anche la responsabile dell’ufficio legale di Differenza Donna Maria Teresa Manente, la Cassazione “da oltre dieci anni afferma che un atto sessuale, compiuto in maniera repentina, subdola, improvvisa senza accertarsi del consenso della donna è reato di violenza sessuale e come tale va giudicato”.

Sono anni che si discute di modificare l’articolo sulla violenza sessuale del codice penale, introducendo il criterio del consenso. In Italia, infatti, è considerato violento solo l’atto sessuale ottenuto “con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità”, una formula che non solo crea una gerarchia tra i diversi reati sessuali, ma che carica la vittima dell’onore di dimostrare di essere stata costretta e soprattutto di aver resistito. È per questo motivo che spesso il processo viene fatto alla vittima, la cui credibilità diventa il vero oggetto del dibattimento. Domande come quelle rivolte alla vittima nel processo sullo stupro di gruppo in cui è coinvolto anche Ciro Grillo, figlio di Beppe Grillo, (Ma se aveva le gambe piegate, come ha fatto a toglierle i pantaloni?; Perché non ha reagito con i denti durante il rapporto orale?) sono purtroppo la normalità.

Se si introducesse il criterio del consenso, come previsto dall’articolo 36 della Convenzione di Istanbul e come già in vigore in 16 Paesi europei, qualsiasi atto sessuale per il quale non è stato espresso il consenso verrebbe considerato violento. La giurisprudenza ha provato a superare questa visione della violenza sessuale, ma sentenze irragionevoli come quella della hostess – che pure confermano l’avvenuta violenza – dimostrano quanto sia ancora difficile da superare.

La giustizia italiana ha un enorme problema nel riconoscere e perseguire la violenza sessuale e nel 2021 è stata anche condannata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo per le “affermazioni colpevolizzanti, moralizzatrici e veicolanti di stereotipi sessisti” in una sentenza di assoluzione di uno stupro di gruppo risalente a 6 anni prima. Secondo il rapporto delle esperte che vigilano sull’applicazione della Convenzione di Istanbul nel nostro Paese non solo l’Italia dovrebbe aggiornare la legge sulla violenza sessuale, ma anche creare “un quadro legale adeguato sulle molestie sessuali”, spesso considerate un illecito civile e non un reato.

Cambiare la legge sarebbe un passo importante, ma anche l’introduzione del criterio del consenso va accompagnata a un più largo cambiamento culturale, per evitare il rischio che i processi di violenza sessuale passino dall’obbligo della vittima di provare di aver resistito alla violenza, a quello di provare non aver dato il consenso, mantenendo però la donna sul banco degli imputati. La giustizia riflette e amplifica le credenze e le convinzioni della società e non è un caso se quasi il 40% degli uomini pensa che la donna può "sottrarsi a un rapporto sessuale se non lo vuole”, secondo l’ultima indagine Istat sugli stereotipi di genere e l’immagine sociale della violenza. La giustizia avrebbe però anche il ruolo di aiutare a superarle, queste credenze. Una sentenza come quella del tribunale di appello di Milano, invece, non fa altro che portarci sempre più indietro.

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Jennifer Guerra è nata nel 1995 in provincia di Brescia e oggi vive in provincia di Treviso. Giornalista professionista, i suoi scritti sono apparsi su L’Espresso, Sette, La Stampa e The Vision, dove ha lavorato come redattrice. Per questa testata ha curato anche il podcast a tema femminista AntiCorpi. Si interessa di tematiche di genere, femminismi e diritti LGBTQ+. Per Edizioni Tlon ha scritto Il corpo elettrico. Il desiderio nel femminismo che verrà (2020) e per Bompiani Il capitale amoroso. Manifesto per un Eros politico e rivoluzionario (2021). È una grande appassionata di Ernest Hemingway.
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