2 giugno 1946: la scelta epocale
Mi sono sempre domandato perché ogni volta che è stato indetto un referendum gli schieramenti in campo si sono divisi annunciando sventure e sciagure collettive in caso di vittoria degli avversari.
La scelta netta tra opzioni opposte agevola la propaganda manichea, costringendo l’elettore a stare da una parte o dall’altra. Forse proprio in virtù di questa pressione si preferisce ormai disertare il turno referendario. Una tensione comunicativa che carica l’atmosfera dell’immaginario collettivo nazionale nel verso della svolta epocale. Prendete, per esempio, il referendum di aprile e quello del prossimo autunno. Nel primo caso pareva che non avremmo potuto più fare il bagno a mare con la vittoria del NO e, viceversa, di finire preda dell’integralismo ambientalista con l’affermazione del SI. Nel secondo caso la personalizzazione della competizione da un lato ha portato il Presidente del Consiglio a dichiarare di lasciare la politica se vince il NO; dall’altro ha spinto gli oppositori a prevedere tempi bui per la democrazia, con l’avvio di un nuovo autoritarismo, se dovesse prevalere il SI.
In ogni campagna referendaria prevale una narrazione negativa che tende a dividere gli italiani in progressisti e conservatori. Un gioco delle parti saldamente ancorato nella cultura politica del Novecento, con un ricorso al plebiscitarismo che tanto piace ad alcuni leader politici nostrani.
Alla storia, tuttavia, non può bastare questa interpretazione politologica. Deve scavare alla ricerca delle radici per restituire profondità al passato, trovando un punto d’origine alle pulsioni del presente. Solo compiendo questo lavoro di scandaglio ci accorgiamo che il manicheismo sopra descritto è parte consustanziale dell’Italia repubblicana, figlia di un parto referendario epocale.
Dopo la validazione dei risultati elettorali, i Savoia, che avevano unificato la Nazione nello Stato monarchico, abdicarono a favore della Repubblica. La massima potestà non era più attribuita per successione dinastica ma attraverso l’elezione parlamentare di un Presidente degli italiani, scelto tra i cittadini onorabili. Il referendum, sin dalla sua prima apparizione, è una scelta tra due indicazioni opposte e alternative.
Ma è anche l’istituto che sancisce la fine del fascismo: votare la Repubblica contro la Monarchia significava buttarsi alle spalle vent’anni di dittatura e ripresentarsi sullo scenario internazionale con un volto nuovo. Un impianto istituzionale che si legava alla lunga e controversa storia del repubblicanesimo italiano avverata dall’affermazione dei partiti di massa, ideologicamente divisi ma democraticamente uniti attorno alla scrittura della Costituzione. La Magna Carta è scaturita dalle scelte del 2 giugno 1946 concedendo diritti collettivi e libertà individuali in un più ampio quadro di garanzie e tutele civili e sociali.
Questa tensione massimamente valoriale ha reso il referendum lo strumento principe attraverso il quale l’elettore, almeno nelle intenzioni di voto, può decidere di indurre la politica a cambiare strada inserendo nella progressione storica un fattore di discontinuità, persino negli assetti istituzionali del Paese.
E allora ecco che il referendum, per la nobile origine del ’46, diventa un Monstrum (nel senso latino del termine) da cui possono scaturire fatti eccezionali in grado di mutare il corso della storia individuale e collettiva. Il 2 giugno non è soltanto il giorno in cui si celebra la Repubblica, ma è anche la memoria di una cambiamento senza ritorno e, allo stesso tempo, il segno della chiusura di un’epoca.
Metaforicamente il referendum, nella percezione comune del senso storico, è l’occasione per sanare una ferita sanguinante, una ferita aperta dalla degenerazione politica e dallo scadimento della fiducia nei confronti delle istituzioni. Se volessimo rispettare il dettato interiore della nostra antropologia di popolo cattolico, potremmo dire che è la penitenza successiva alla colpa (la cabina elettorale mi ha sempre impressionato per la somiglianza al confessionale).
Il referendum del ’46 è l’origine della nostra democrazia parlamentare. Un’origine che il sapore dello stato di eccezione; una tara che ci portiamo dietro dal secondo dopoguerra come se vivessimo in una condizione di costante precarietà bisognosa di continua conferma. Sin dalla sua riapparizione nel ’74 l’istituto referendario è una specie di rituale “ancestrale” grazie al quale, scelta dopo scelta, voto dopo voto, si riconferma lo spirito repubblicano; quasi un balsamo per lenire l’incessante preoccupazione che quel voto del ’46 non fosse stato un atto definitivo, ma solo un modo per lavarsi le mani lorde di sangue.
Oggi, dopo settant’anni, possiamo dire, confermando le sensazioni degli italiani intervistati sull’argomento, che il concetto di Repubblica, a differenza delle definizioni di Stato, Nazione e Patria, suscita reazioni positive perché identifica l’Italia con la Democrazia il cui campo semantico è riempito dai contenuti della Costituzione. Ancora oggi milioni di italiani, come allora i padri costituenti, pensano alla Repubblica come un’istituzione partecipativa e decisamente moderna: una comunità consapevole che integra, almeno nelle intenzioni normative, l’universo dei diritti alla missione dei doveri.