10 anni fa moriva Eluana Englaro, intervista a Marco Cappato: “Italiani chiedono legge su fine vita”
Sono trascorsi 10 anni dalla morte di Eluana Englaro, la giovane che per 17 anni, cioè dal 1992, a causa di un grave incidente stradale, rimase attaccata alle apparecchiature per l'alimentazione artificiale, in stato vegetativo, ricoverata in una casa di cura a Lecco. A nulla allora valsero gli appelli del padre Beppino, che lottò affinché la figlia potesse esercitare il diritto di morire, volontà che lei stessa aveva espresso quando anche il suo amico Alessandro si ritrovò in un coma irreversibile. Il dibattito politico era infuocato. Ci vollero anni di lotte, undici processi, quindici sentenze dei giudici italiani e una anche della Corte Europea dei diritti dell'uomo, per permettere ai medici di interrompere la nutrizione forzata per Eluana, che morì alla Residenza Sanitaria Assistenziale ‘La quiete' di Udine, il 9 febbraio del 2009 all'età di 38 anni.
Non fu semplice condurla lì. Nonostante fosse stata emessa una sentenza che lo stabiliva, la Regione Lombardia, allora guidata da Roberto Formigoni, impedì che a Eluana fossero sospesi i trattamenti (per questo la Regione fu più tardi condannata a un risarcimento di 164mila euro). Per questo Beppino Englaro fu costretto a portare la figlia in una struttura in Friuli. Lo scontro durissimo nella società di quegli anni, tra le associazioni cattoliche e pro-vita e il mondo laico (soprattutto grazie ai radicali), si può riassumere tutto nelle immagini della folla che cerca di bloccare l'ambulanza che doveva trasportare Eluana a Udine.
Nel frattempo l'opinione pubblica aveva capito. Fu il governo Renzi a ratificare un cambiamento che di fatto era già avvenuto nella mentalità della maggior parte degli italiani: fu così che venne adottata la legge sul ‘Biotestamento' (la 219 del 2017), che permette finalmente a una persona di dare disposizioni sulle future terapie, in caso sopraggiunga un cronico e irreversibile peggioramento delle sue condizioni di salute, tale da non renderla più vigile e cosciente. Abbiamo intervistato Marco Cappato, tesoriere dell'Associazione Luca Coscioni.
A dieci anni dalla morte di Eluana Englaro, a che punto è in Italia il dibattito sul fine vita e sull'eutanasia?
Ormai è un diritto riconosciuto per tutti quello di poter decidere di sospendere le terapie. C'è stata prima una conquista della giurisprudenza, sia con il caso Englaro che con il caso Welby, e poi finalmente il Biotestamento è diventata una legge dello Stato, nel rispetto della Costituzione. La prima proposta di legge sull'eutanasia è del 1985, a firma di Loris Fortuna. Abbiamo perso trent'anni, il percorso è stato lungo. Ma le cose sono cambiate perché è cambiata la società, è cambiata la medicina, è cambiato il modo di morire. Questi sono problemi molto sentiti che incidono sempre di più sulla vita delle persone. E' inevitabile che con l'allungarsi della vita media le persone vogliano sempre più prendere decisioni su come disporre di questo tempo. Era chiaro che ci saremmo arrivati, ed è certo che si arriverà alla regolamentazione dell'eutanasia. Il problema è quando. Perché nel frattempo le persone soffrono agonie inutili. I casi come quelli di Englaro e Welby hanno solo aiutato a capire che quello che tanta gente patisce sulla propria pelle non è un fatto privato, ma è comune a tanti individui. Ormai non c'è più nessuno che non abbia esperienza almeno indiretta di vicende di questo tipo.
C'è secondo te un tentativo da parte del governo per ostacolare l'applicazione del Biotestamento?
C'è certamente un'inerzia burocratica enorme, per cui non è stato fatto ancora un registro nazionale unico per le disposizioni anticipate di trattamento, che invece è fondamentale per esempio per semplificare la vita alle persone che cambiano residenza, o per chi cambia temporaneamente domicilio, per lavoro o per vacanza. Potrebbe verificarsi un problema improvviso di salute, per cui diventerebbe utile poter consultare una banca dati. L'altra cosa che manca è una campagna d'informazione per i cittadini e per i medici, che devono poter aiutare le persone a comprendere quali sono le implicazioni di una materia così delicata, per poter scegliere consapevolmente. Tutto questo per il momento rende limitata l'incidenza della legge 219 del 2017. Poi c'è stato il tentativo, che per fortuna non è andato a buon fine, da parte del governo di modificare in Parlamento la legge, inserendo l'obbligo di registrare il testamento biologico presso il comune di nascita invece di quello di residenza. E questa proposta, se fosse di nuovo vagliata, sarebbe un ulteriore ostacolo burocratico.
Voi come Associazione Luca Coscioni che numeri avete?
Sono circa 23mila i moduli sul Biotestamento, scaricati ad oggi dal sito dell'Associazione Luca Coscioni. I dati ufficiali del ministero della Salute li conosceremo soltanto quando saranno trasmessi alle Camere entro il 30 aprile 2019 attraverso una relazione sull'applicazione della legge.
Come si può migliorare la legge?
La legge sul Biostestamento è completa, ma per queste situazioni le leggi non bastano, sono la premessa. Il fatto che non ci sia più un divieto è la premessa che aiuta i cittadini a poter esercitare i loro diritti. Poi però occorre la conoscenza: bisogna investire su questo.
Negli ultimi dieci anni la percezione delle persone di fronte a questi temi è cambiata, sul diritto di poter scegliere di rinunciare alle terapie. E sul suicidio assistito?
La nutrizione artificiale teneva in vita Eluana Englaro contro la sua volontà. Oggi, da quello che dicono i sondaggi, la gente è d'accordo su un principio fondamentale: in una condizione di malattia terminale o di sofferenze insopportabili ciascuno è libero di decidere sulla propria vita. La parola ‘suicidio' è sicuramente una parola che spaventa, io non penso che una persona che decida di porre fine alle proprie sofferenze sia un ‘suicida', ma sta soltanto esercitando un suo diritto. Mi sembra che su questo punto l'opinione pubblica sia molto più avanti della classe politica.
Lo scorso 30 gennaio è iniziata la discussione sul testo nelle commissioni congiunte Giustizia e Affari sociali della Camera. Il Parlamento è chiamato a produrre una legge entro il prossimo 24 settembre, per colmare un vuoto legislativo, così come ha chiesto la Consulta. Che possibilità ci sono che nei prossimi mesi si porti a termine l'iter della legge sull'eutanasia?
Il governo è bene che si tenga fuori. Ci sono due scenari: o questo tema viene gettato in pasto alle risse dei partiti, dei loro boss, delle fazioni, allo spettacolo indecente quotidiano che trasforma qualsiasi questione nell'occasione di tirarsi calci a vicenda, nel chiuso dei corridoi. E allora non basterebbero sei anni, e non sei mesi, per avere una legge. L'altro scenario è che i partiti e i loro capi lascino il Parlamento libero di discutere, davanti a un'opinione pubblica informata, quindi con confronti e dibattiti televisivi. A quel punto, visto il grado di maturità e consapevolezza dei cittadini, 8 mesi possono bastare. Ma dipende tutto dal metodo: se è un metodo sequestrato dagli interessi dei partiti non ci sarà una legge. Se invece si fa un lavoro vero al servizio del Parlamento allora si darà una risposta a quei 150mila cittadini che hanno firmato per avere una legge sull'eutanasia.
Ricordiamo però che nel contratto di governo non esiste questo punto.
Nel contratto di governo è stata inserita però la trattazione immediata delle proposte di legge d'iniziativa popolare. Per cui anche chi è contrario deve assumersi l'impegno di consentire al Parlamento di decidere. Vorrei ricordare che il Parlamento è un'istituzione autonoma dal governo. Sarebbe da analfabeti istituzionali dire che il Parlamento può solo approvare le cose proposte dal governo. Quindi se c'è la volontà politica il Parlamento può fare come vuole su un tema come questo.
E cosa succede se non viene presentata una legge entro i termini che ha dato la Consulta?
A quel punto la Corte Costituzionale, seguendo i principi già fissati nell'ordinanza di ottobre, potrà direttamente disapplicare il codice penale del 1930 per le vicende simili a quella di Dj Fabo per esempio. Sarà la Consulta a dire dunque che quel reato non si può applicare per chi aiuta a morire un'altra persona affetta da malattia irreversibile. Se il Parlamento non ci arriverà decideranno i giudici. Nel frattempo però si verificano costantemente, nella clandestinità, vicende come quella di Dj Fabo o di Davide Trentini.