Petrolio ancora sotto pressione coi prezzi che calano su livelli che non si registravano da undici anni, col contratto future (di acquisto a termine, ndr) sul greggio texano Wti indicato oggi a 32,4 dollari al barile e quello sul Brent del Mare del Nord a 32,7 dollari. A fare ulteriormente perdere quota all’oro nero sono le vendite dei fondi hedge, le cui posizioni lunghe (in acquisto, ndr) sono calate del 24% solo nella prima settimana dell’anno. Ma al di là delle situazioni tecniche contingenti, il malessere del greggio ha origini più profonde.
Da un lato i timori sulla reale tenuta della crescita della Cina pesano sulla domanda attuale e prospettica, dall’altro la diatriba tra i paesi membri dell’Opec, in particolare tra Arabia Saudita e Iran, rischia di portare ad una ulteriore crescita della sovrapproduzione, a fronte di scorte di prodotti petroliferi che negli Usa restano attorno ai 100 milioni di barili, ossia sopra la media degli ultimi cinque anni. Così il 2015 ha registrato per il terzo anno consecutivo un calo delle quotazioni ma accanto a questi fattori “fondamentali” ve n’è un altro che rischia di abbattere ulteriormente le quotazioni petrolifere.
Secondo un’analisi di Morgan Stanley, infatti, le quotazioni del petrolio (che come quelle delle principali materie prime sono denominate in dollari e tendenzialmente si muovono in direzione opposta a quella della valuta americana) subiscono un effetto leva negativo, per cui se la valuta Usa dovesse apprezzarsi di un ulteriore 5%, il prezzo del petrolio potrebbe calare, a leva, tra il 10% e il 25% ossia, partendo dai 35 dollari dello scorso fine settimana, tra i 3,5 e i 9 dollari al barile circa.
L’eccesso di offerta è infatti ritenuta la causa fondamentale del calo dei prezzi fino ai 55-60 dollari al barile, mentre l’ulteriore gap rispetto alle attuali quotazioni è già da imputarsi interamente al fattore valutario secondo gli esperti. La volatilità indotta sui mercati finanziari dalla frenata dell’economia cinese e di altre tra le principali economie emergenti come il Brasile, il Sud Africa e la Russia, non giocano certo a favore di un rimbalzo a breve termine delle quotazioni.
Ma se i gestori dei fondi hedge piangono, gli automobilisti sorridono: le organizzazioni che monitorano i prezzi sul mercato Usa non escludono infatti un calo della benzina sotto il dollaro al gallone, contro gli 1,42 dollari scarsi del prezzo medio attuale. Volete sapere in euro a cosa equivale? A circa 25 centesimi al litro (contro gli attuali 35 centesimi scarsi). Questo perché negli Usa solo alcuni degli stati prevedono accise sui carburanti che possono arrivare, al più, a 40-45 centesimi al gallone, ossia 12 centesimi di dollaro al litro (ossia 11 centesimi di euro al litro).
In Italia, il paese dove si promettono sempre sconti di tasse e crescita economica ma raramente si vedono tanto gli uni quanto l’altra, il prezzo medio della benzina è oggi pari a 1,437 euro al litro (con un minimo, in Veneto, di 1,405 euro), salvo sconti self-service o altre forme di promozione. Di questo prezzo circa 99 centesimi al litro, pari a quasi il 69% del totale, sono rappresentati da Iva accise, ossia dal prelievo fiscale. Secondo una recente statistica della Cgia di Mestre tra i paesi di Eurolandia solo il Belgio ha una incidenza del prelievo fiscale più elevata (il 70,3%).
Così in Europa pagano la benzina più cara che in Italia solo gli automobilisti della Danimarca, della Norvegia e dei Paesi bassi, che a inizio anno oscillavano tra gli 1,488 e gli 1,543 euro al litro, purtroppo per loro. Tutti gli altri paesi del vecchio continente pagano (prezzi rettificati in euro) meno, dalla bistrattata Grecia (1,3875 euro/litro) alla prospera Gran Bretagna (1,3689 euro/litro), mentre Turchia, Francia, Svizzera e Germania vedono tutte prezzi che oscillano attorno a 0,9187 euro al litro, millesimo più millesimo meno.
Il peso di questo fardello fiscale oltre che sulle famiglie grava sulle imprese italiane, contribuendo come e più del costo del lavoro a renderle meno competitive. Perché allora si continua a chiedere provvedimenti per defiscalizzare il costo del lavoro (o favorire la “flessibilità” del lavoro medesimo) e non si provvede a defiscalizzare il costo dei carburanti o a renderlo più “flessibile” anche verso il basso e non solo e sempre verso l’alto? Quando giungerà una risposta seria e sostenibile sarà sempre troppo tardi, visto che ogni ritardo presenta un costo non trascurabile in termini di mancati (o persi) posti di lavoro.