La riforma Fornero non si tocca. Tranchant l'allarme lanciato dalla Corte dei Conti nel pomeriggio del 3 ottobre, la quale ha sottolineato che per assicurare la stabilità dei conti pubblici non è in alcun modo possibile modificare la riforma delle pensioni varata durante il governo Monti nel 2011, dunque le richieste dei sindacati – che da tempo insistono per ottenere una dilazione dell'adeguamento dell'età pensionabile all'aspettativa di vita – devono essere rispedite al mittente. "Ogni arretramento rispetto ai parametri sottostanti al disegno di riforma completato con la legge Fornero, esporrebbe la finanza pubblica a rischi di sostenibilità", rileva la Corte dei Corti, sostenuta da Bankitalia, la quale a sua volta evidenzia invece che "le ultime proiezioni sulla spesa pensionistica mettono in evidenza l’importanza di garantire la piena attuazione delle riforme approvate in passato, senza tornare indietro".
"L’insieme delle riforme previdenziali realizzate in più di vent’anni ha migliorato in modo sostanziale sia la sostenibilità sia l’equità intergenerazionale del sistema. Tuttavia le prospettive demografiche e di crescita potenziale sono state aggiornate e risultano meno favorevoli. Le più recenti proiezioni dell’incidenza della spesa sul prodotto, da poco rese note dalla Ragioneria Generale dello Stato, sono, conseguentemente, più alte di quanto precedentemente prospettato e comporterebbero un peggioramento degli indicatori di sostenibilità delle finanze pubbliche calcolati dalla Commissione europea".
Boeri vs Fornero e le pensioni dei millenial
Da molto tempo le pensioni sono al centro del dibattito pubblico e politico, in particolare nel corso degli ultimi anni si sono susseguiti vari allarmi sulla futura insostenibilità dei conti dell'Inps e, soprattutto, sulla condizione dei futuri pensionati, i trentenni di oggi. “Se l’economia italiana non cresce almeno dell’1% all’anno e non c’è un processo di maggiore stabilizzazione del lavoro iniziando con prospettive di carriera più lunghe, senza tutte le interruzioni che contraddistinguono spesso i contratti temporanei o precari, ci potrebbero essere problemi molto seri in futuro”, avvertì Boeri già nel dicembre del 2015, sottolineando che gli attuali trentenni rischiano di dover lavorare fino ai 75 anni d'età in cambio di futuri assegni pensionistici decisamente più bassi rispetto a quelli percepiti da padri e nonni, allarme confermato anche da alcuni studi effettuati dall'Ocse, nei quali si evidenziava uno scenario decisamente infausto per i futuri pensionati Inps.
Insomma, i cosiddetti Millennial rischiano di vivere la propria futura condizione da pensionati in condizione di povertà assoluta, né più né meno. L'ex ministro Fornero ritenne ingiustificato l'allarme lanciato da Boeri, sottolineando infatti che non fosse la riforma pensionistica il problema – la quale invece permetterebbe ai giovani d'oggi di non venire espulsi dal sistema pensionistico nonostante i contributi versati – ma piuttosto le condizioni lavorative cui sono sottoposti gli under 30, evidenziando che per porre rimedio al problema rilevato fosse necessario "fare in modo che i giovani entrino presto nel mondo del lavoro con forme contrattuali il più dignitose possibile". Tradotto: l'unico argine è abbattere il precariato, radice dei mali dei giovani lavoratori italiani.
Le storture dell'Inps e le riforme pensionistiche
Nel tentativo di porre rimedio a questo deleterio scenario nel corso degli anni si sono susseguite una serie di riforme previdenziali – Dini, Sacconi, Fornero – anche di stampo "lacrime e sangue", riforme che hanno avuto come unico scopo il riequilibrio dei conti dell'Inps sul lungo periodo, ma che di contro, in virtù della loro stessa struttura, hanno penalizzato e continueranno a penalizzare fortemente tutti quei lavoratori precari che nel corso della propria carriera professionale sono costretti ad accumulare buchi contributivi e percepiscono stipendi bassi, dunque i giovani.
Ma come si è arrivati a questa situazione? Difficile rispondere in maniera semplice a un quesito così complesso, le variabili in gioco sono decisamente numerose. Le molteplici riforme varate dal 1995 a oggi hanno cercato di "mettere una pezza" alle storture provocate dal sistema retributivo in vigore fino all'inizio degli anni '90. Che cos'è il sistema retributivo? In passato – fino alle riforma Dini del 1995 – gli importi delle pensioni venivano calcolati basandosi sugli ultimi stipendi percepiti dai pensionandi e non in base alla reale quantità di contributi versati nel corso della carriera professionale. Così, tra baby pensionati (che consentivano ad alcune categorie di dipendenti di andare in pensione dopo solo 19 anni circa di lavoro) e sistema retributivo, per decenni l'Inps ha pagato assegni pensionistici di gran lunga superiori a quanto materialmente versato dai titolari dei trattamenti.
Dal 1995 si è dunque deciso di ricalibrare gradualmente la situazione, varando una serie di riforme. Si è passati quindi da un sistema di tipo retributivo a uno semi-contributivo e per finire a uno totalmente contributivo. I cambiamenti hanno dunque portato nel corso del tempo all'innalzamento dell'età pensionabile, rapportata all'aspettativa di vita, e a un calo dell'importo degli assegni per i nuovi pensionati rispetto ai vecchi percettori. Questo riassetto del sistema previdenziale, però, porterà dunque i nati dagli anni '80 in poi a fare i conti con pensioni alquanto risicate e percepite alla soglia dei 70 o 75 anni di età, aumento determinato soprattutto dalla discontinuità contrattuale e contributiva che caratterizza le carriere dei cosiddetti "trentenni", costretti a sopravvivere cambiando spesso lavoro, tipo di contratto – il più delle volte precario – e percependo retribuzioni nettamente inferiori rispetto a quelle percepito dai propri padri a parità di età ed esperienza.
Questa infausta previsione è stata confermata anche dal rapporto Ocse sulle diseguaglianze sociali diffuso dall'organizzazione internazionale il 18 ottobre:
"Le ineguaglianze tra i nati dopo il 1980 sono già maggiori di quelle sperimentate dai loro parenti alla stessa età e tendono ad aumentare durante la vita lavorativa, una maggiore disparità tra i giovani di oggi comporterà probabilmente una maggiore diseguaglianza fra i futuri pensionati, tenendo conto del forte legame che esiste tra ciò che si è guadagnato nel corso della vita lavorativa e i diritti pensionistici".
Come funziona l'Inps: il patto intergenerazionale
Ma perché accade tutto questo? La risposta a questa domanda sta nel meccanismo di funzionamento dell'Inps. Due gli elementi essenziali che caratterizzano la gestione dell'Istituto di previdenza sociale italiano: l'Inps è un sistema pensionistico a ripartizione senza copertura patrimoniale, questo significa che le pensioni vengono erogate ricorrendo alle entrate correnti e non sono coperte da un vero e proprio accantonamento dei contributi. Nello specifico, per essere più chiari, significa che tutti i prelievi contributivi subiti dai lavoratori nel corso della loro carriera professionale non vengono "accantonati" in un conto Inps intestato al lavoratore stesso, ma vengono utilizzati per pagare gli assegni mensili di chi in quegli stessi anni è già in pensione. In virtù del cosiddetto "patto intergenerazionale", le pensioni dunque vengono pagate dalle generazioni successive ed è proprio questo patto intergenerazionale che ha portato a scaricare il debito contratto negli anni '70 e '80 sulle spalle dei nuovi nati, degli attuali lavoratori che vedono spostarsi la stanghetta dell'età pensionabile sempre più in là e di pari passo diminuire gli importi dei propri assegni.
Non è, ovviamente, solo l'instabile e precario patto intergenerazionale a creare questa iniqua sperequazione ai danni delle giovani generazioni, le cause- di cui ai tempi non si tenne conto – sono da associarsi a numerose altre variabili, come ad esempio l'aumento dell'aspettativa di vita, la diminuzione degli stipendi, l'aumento della precarietà, l'aumento dell'età media degli occupati e la diminuzione della percentuale di popolazione attiva in rapporto al numero di pensionati cui va garantita la rendita pensionistica alle vecchie regole.
I numeri del declino
A gennaio 2017 risultavano in essere 18.029.590 trattamenti pensionistici erogati mensilmente, il 63,1% delle quali di importo inferiore a 750 euro. I percettori dei trattamenti pensionistici sono circa 12 milioni, in quanto ogni pensionato può percepire più assegni mensili (pensione di vecchiaia e reversibilità ecc…). Il dato però non include i trattamenti pensionistici ex Inpdap ed ex Enpals, accorpati all'Inps dalla fine del 2011, che ammontano rispettivamente a 2.843.256 e 57.008 per il 2017. Delle 18.029.590 pensioni, 14.114.464 sono di natura previdenziale, derivanti da una copertura contributiva, mentre la differenza è costituita dalle prestazioni assistenziali (invalidità civile, pensioni sociali e assegni sociali, non integralmente coperte da versamenti). Nel 2016, dunque, escluse ex Inpdap ed ex Enpals, l'Inps ha speso 197,4 miliardi di euro, di cui 176,8 miliardi di euro derivanti da coperture contributive.
Per fare un paragone: a fronte di 18 milioni di trattamenti pensionistici da erogare, la platea di lavoratori attivi che materialmente versa i contributi per far fronte al fabbisogno è composta da 22 milioni e 700 persone, platea che nel corso degli anni andrà sempre più assottigliandosi a causa dell'inesorabile invecchiamento della popolazione causato dal declino demografico. Dal 1993 a oggi è sensibile l'aumento dell'età media dei lavoratori attivi: da 38,2 a 43,6 anni. Allo stesso modo, nel corso dell'ultimo quarto di secolo si sono persi 3,6 milioni di lavoratori nel segmento 25 – 35 anni e sono invece cresciuti di 4,2 milioni quelli del segmento over 45, con un raddoppio del numero di lavoratori attivi tra i 55 e i 64 anni rispetto all'inizio degli anni '90.
Pensione a 67 anni: va adeguata all'aspettativa di vita
Pochi giorni fa l'Istat ha certificato un aumento della speranza di vita di cinque mesi e dunque, secondo quanto previsto dalla legge Sacconi prima e Fornero poi, nel 2019 l'età pensionabile verrà innalzata nuovamente e arriverà a toccare quota 67 anni. Tra poco più di un anno, dunque, l’età minima per ottenere la pensione di vecchiaia dovrebbe aumentare, passando dagli attuali 66 anni e 7 mesi ai 67 anni, a meno di correttivi approvati in extremis, da tempo richiesti dai sindacati. Così come previsto dalle ultime riforme pensionistiche, l'età pensionabile va legata e adeguata alla speranza di vita e, al crescere della seconda, la prima andrà innalzata di pari passo, un meccanismo imposto al fine di far quadrare i conti dell'Inps nel lungo periodo. Bloccare questo meccanismo e dunque congelare gli adeguamenti dell'età pensionabile all'aspettativa di vita sarebbe tecnicamente possibile, ma l'operazione richiederebbe lo stanziamento di ingenti fondi economici e gli effetti di questa operazione andrebbero a scaricarsi sulle spalle delle generazioni future. Insomma, congelare o dilatare l'adeguamento dell'età pensionabile all'aspettativa di vita produrrebbe nel tempo una stortura capace di aggravare le condizioni cui saranno sottoposti i futuri pensionati, esattamente come le concessioni elargite dai vari governi nel corso degli anni '70 e '80.