I mercati azionari mondiali continuano a correre, nonostante alcune “anime candide” guardino sgomente i grafici, si accorgano che dai minimi del 2009 a oggi i mercati hanno mediamente raddoppiato la quotazione (l’S&P500, che tiene conto dei 500 maggiori titolo americani quotati a Wall Street ha fatto anche meglio, +166%) e scuotano la testa, ricordando sinistre somiglianza con l’andamento dell’indice Nikkei225 pre-scoppio della bolla immobiliare e bancaria negli anni Novanta. Ma ben poca della ricchezza che le borse “vedono” nei numeri di bilancio e “prevedono” negli obiettivi e nelle stime fissate per i trimetri o gli anni a venire sembra giungere al livello della strada, per usare un’espressione americana. Chi ha ragione e perché? Forse il Credit Suisse, che dopo aver individuato quattro macro temi che sosterranno i mercati azionari rincara oggi la dose sostenendo che l’azionario è entrato in un “rialzo secolare” e che nel prossimo futuro, eventualmente dopo una correzione di breve (che ci sta tutta, specie su mercati come quello giapponese o statunitense) che potrebbe rappresentare un’ottima “occasione d’ingresso” per chi finora non avesse investito in azioni, la crescita delle borse sarà guidata non tanto dalla cospicua e continua offerta di liquidità da parte delle banche centrali occidentali, come finora, ma dalla crescita degli utili aziendali, legata a sua volta ad una ripresa degli investimenti e della domanda, specie in Europa?
O ha ragione chi parla di bolla speculativa, di valori che ormai hanno perso ogni aggancio con la realtà sospinte dalla “droga” della liquidità pompata nel sistema dalle banche centrali, segnalando come i flebili segnali di ripresa non inducano, specie in Italia, a poter sperare ancora nulla di buono, perché come ammesso dalla Banca d’Italia il “beneficio” (si fa per dire: si tratterebbe di meno di 200 euro all’anno in media per lavoratore dipendente) dovuto alla marginale riduzione del cuneo fiscale riuscirà a malapena a controbilanciare l’ulteriore incremento del peso fiscale dovuto al “fiscal drag”, rischiando dunque di ingenerare l’ennesima illusione, come spiega bene Mario Seminerio? Certo, il fatto che gli importi a prestito richiesti dagli italiani siano mediamente calati del 23% nell’ultimo anno a poco più di 10 mila euro (dai 12.500 dell’ottobre 2012), come segnalano gli analisti di Prestiti.it e Facile.it sottolineando anche come questo calo sia legato in gran parte alla crisi del mercato dell’auto (di cui vi ho parlato qualche giorno fa) sembrerebbe non lasciare molti dubbi (e di fatto dubbi circa la preponderanza, sinora, della liquidità come motore dei rialzi borsistici non possono sussisterne), ma riflettiamo.
Che i prestiti richiesti in Italia calino, oltre alla crisi dell’auto, deriva dal fatto che molti potenziali richiedenti sanno di non disporre dei requisiti necessari per vedersi concedere il prestito e rinunciano in partenza. Poi la scarsa propensione delle banche a concedere nuovi prestiti (legata all’ulteriore stretta sul credito che è del resto difficilmente evitabile quando come in Italia le banche vedono nelle pieghe dei propri bilanci 260 miliardi di euro di crediti deteriorati, o “bad loans”, e finché si registrano variazioni negative del Pil che fanno temere un ulteriore scadimento della qualità dei debitori, imprese o famiglie che siano) ha portato molti, come ricorda Lorenzo Bacca, responsabile della business unit prestiti di Facile.it non a ricorrere ai prestiti come in passato per far fronte “a una spesa saltuaria ma ingente, come l’acquisto dell’auto o degli arredi, la ristrutturazione di casa o l’acquisto di un piccolo immobile”, quanto per “ottenere liquidità, con cui far fronte alle spese più disparate”. Questo è sicuramente un sintomo di crisi, eppure agli occhi dei mercati non è necessariamente un male, almeno per il futuro.
Minori prestiti concessi alle fasce del mercato più deboli significa minori rischi a cui si sottopongono le banche (che da novembre saranno sottoposte per 12 mesi a una revisione della qualità degli attivi da parte della Bce, al termine della quale potrebbe emergere la necessità di ulteriori ricapitalizzazioni, fusioni o finanche parziali nazionalizzazioni) e questo fino a che l’accento sarà posto sulla solidità patrimoniale non sarà giudicato negativamente. Piuttosto occorre sperare che sia vero quanto dicono gli analisti del Credit Suisse, ossia che gradualmente l’attenzione dei mercati si sposterà dalla liquidità (e solidità patrimoniale) alla crescita, quindi si starà più attenti ai margini reddituali e allo sviluppo di fatturato e utili, cosa che dovrebbe indurre banche e imprese a moderare gli ulteriori programmi di taglio dei costi e contenimento delle attività (che porteranno a ulteriori esuberi nel breve periodo) o ad affiancarvi nuovi progetti di espansione, almeno sui mercati più promettenti e profittevoli. Insomma: come sempre, al netto dell'effetto liquidità, le borse “vedono” una ripresa molto prima di quanto io e voi ci accorgeremo (se ce ne accorgeremo) che il nostro benessere sta nuovamente aumentando.
Se ce ne accorgeremo, ho detto, ma forse dovrei dire di quanto se ne accorgeranno alcuni di noi, perché è chiaro che per evitare di ricadere paro paro negli stessi errori compiuti ripetutamente negli ultimi 20 anni da una classe politica (ma anche industriale, sindacale e bancaria) fallimentare occorrerà, una volta partita la ripresa, iniziare a varare, sia pure gradualmente e senza fare troppi danni, qualche riforma strutturale che ci renda meno dipendenti dal debito bancario, che consenta di rinunciare al “nero” in cambio di un minor peso fiscale sulle spalle sui contribuenti, che possa portare a una riduzione della distanza venutasi a creare tra l’uno per cento “ricco” e sempre più benestante della popolazione e tutto il resto del paese sempre più in affanno, che torni a dare spazio ai nostri giovani e a coloro che sono al momento esclusi o ai margini del mondo del lavoro (partite Iva e precari) in cambio della rinuncia di una parte delle garanzie (e delle rendite) di coloro che attualmente sono maggiormente garantiti (lavoratori a tempo indeterminato sia pubblici sia privati). Altrimenti non andremo lontano.
Se poi in tutto questo vorremo usare meno contante, ben venga, ma sarebbe meglio che le “anime candide” che plaudono alle dichiarazioni di questi giorni del ministro dell’Economia e Finanze (ed ex direttore generale di Banca d’Italia) Fabrizio Saccomanni a favore di una riduzione più o meno virtuosa dell’utilizzo del contante, avessero ben chiaro che se non si procederà prima a ridurre i costi della “moneta elettronica” (e privata, in quanto emessa da banche ed emittenti di carte di credito e di debito) si starà solo facendo l’ennesimo favore ad un attore economico (il sistema bancario), a costo degli altri (imprese e famiglie). E questa non sarebbe davvero una riforma strutturale, semmai la perpetrazione di errori già ripetutti tante volte in passato che hanno contribuito a far impantanare l’Italia nell’attuale palude economica.