Quante volte avete sentito decantare dal politico di turno la svolta, la volta buona, la ripresa che finalmente arriva, i ristoranti pieni, solo per constatare che tutto questo benessere sembra essersi dimenticato di voi e di chi avete attorno? Le crude cifre ci dicono che la ripresa italiana è scomparsa dai radar da almeno 15 anni e il sospetto che sia colpa “della casta” è così forte che alcuni movimenti ci hanno costruito sopra la loro fortuna politica. Ma perché la ripresa italiana rimane così modesta, in concreto?
Hanno provato a dare una risposta gli analisti di Amundi, il principale asset manager europeo, notando come a fine 2015 il Pil italiano fosse ancora ai livelli raggiunti già a inizio millennio, avendo recuperato “in minima parte”, a differenza di molti altri paesi, quanto perso nella crisi del 2008. La vittoria ha tanti padri almeno quanto le sconfitte sono orfane, si dice, ma gli esperti segnalano due fattori che quanto meno “spiegano la sottoperformance negli ultimi 3 anni, se non altro perché permettono di distinguere chiaramente la situazione dell’Italia da quella della Spagna: le banche e la classe politica”.
Attenzione però: oltre a questi due freni che“continuano ad esercitare pressione” sulla crescita italiana e si autoalimentano a vicenda, vi sono anche altre concause a partire dai bassi tassi d’interesse che hanno generato un effetto favorevole sull’economia italiane minore che su quelle di altri paesi, principalmente per due motivi: per due motivi: da un lato il settore privato italiano (imprese e famiglie) è molto meno indebitato rispetto a quello di altri paesi “periferici” (come la Spagna), pertanto il calo dei tassi di interesse non ha avuto lo stesso effetto “straordinario” in termini di riduzione dei vincoli di liquidità esercitati dal livello del debito.
Inoltre, al contrario, se sono sicuramente vantaggiosi per le finanze pubbliche, facendo risparmiare allo stato debitore decine di miliardi di oneri finanziari all’anno, tassi di interesse più bassi trascinano verso il basso contemporaneamente il margine di interesse per le famiglie italiane che, in media, detengono una elevata quantità di prodotti di risparmio (che hanno reso sempre meno). In soldoni, tra il terzo trimestre 2008 e il quarto trimestre 2015, il calo dei rendimenti per le famiglie italiane è stato pari quasi al 5% del reddito disponibile lordo, mentre la riduzione dei pagamenti in termini di tassi di interesse ha permesso di salvaguardarne solo il 2%.
Questo ha causato nel caso italiano una perdita netta di circa il 3% del reddito lordo delle famiglie, mentre al contempo in Francia e Germania i due effetti si sono sostanzialmente bilanciati e in Spagna l’effetto netto è stato fortemente positivo. Nonostante le polemiche, insomma, la Bce non ha fatto particolarmente male alla Germania, né tanto meno alla Francia, e ha fatto bene alla Spagna, a danno però dell’Italia (che pure gran parte della stampa europea considera la maggiore beneficiaria della politica monetaria portata avanti da Mario Draghi).
Eppure, aggiungono gli uomini di Amundi, questi tre fattori frenanti, per quanto significativi, non bastano a giustificare la lentezza con cui l’economia italiana sta tentando di uscire dalla crisi. La crisi italiana è infatti legata a cause di lungo periodo come “la mancanza di trasparenza, la mancanza di concorrenza e molteplici resistenze del mercato del lavoro, così come del mercato dei beni e dei servizi”. Tutti fattori che hanno portato a “una produttività stagnante rispetto a quella di paesi comparabili”, cui si sono sommati “meccanismi di determinazione dei salari e dei prezzi carenti, con conseguente perdita di competitività esterna, quando l’adesione all’euro non offre più alcuna possibilità di svalutazione”.
Insomma, mettersi con “vasi di ferro” sapendo di essere un vaso di coccio ma non aver poi fatto nulla per allinearsi agli altri compagni di (s)ventura non è stata la migliore tra le politiche possibili, a dire poco. In aggiunta a tutto questo, la potenziale crescita italiana “è molto penalizzata da una debole crescita demografica”, il che ha riflessi anche sulla sostenibilità dell’ingente livello di debito pubblico. Il quadro è solo negativo, dunque? Gli esperti di Amundi non sono così pessimisti ed anzi notano come il recente miglioramento dell’occupazione indichi come gli effetti positivi del Job Acts non si siano esauriti, mentre gli interventi per ripristinare la competitività siano appena agli inizi.
Se non altro, a due anni di distanza dal varo della riforma del lavoro e nonostante i modesti livelli di crescita registrati, “l’Italia ha almeno cominciato a staccarsi dalla lunga situazione di aumento dei salari sistematicamente superiore a quello della produttività”, un retaggio del passato che è del tutto “inadeguato al sistema di cambi fissi della zona euro” a cui l’Italia ha scelto di aderire 15 anni or sono (quando, guarda caso, la crescita “all’italiana” ha sostanzialmente cessato di esistere).
Un risultato non da poco, che resta peraltro esposto ai rischi di una eventuale vittoria del “no” al referendum del prossimo 4 dicembre secondo gli esperti. La bocciatura della riforma costituzionale, infatti, “avrebbe conseguenze molto problematiche nel preservare la capacità del Senato di bloccare le nuove iniziative, indebolendo l’attuale governo, che inizialmente ha fatto sperare in trasformazioni significative per l’economia”.
Ciò nonostante, guardando al prossimo biennio, gli analisti ritengono che la combinazione “di un miglioramento del mercato del lavoro e dell’arresto della perdita di competitività dovrebbe proseguire e retroagire positivamente, anche se moderatamente, per l’economia”. Inutile però attendersi “un forte sostegno aggiuntivo” dalla politica fiscale fintanto che la stessa “rimane vincolata agli impegni del Paese verso Bruxelles”. Così alla fine la crescita attesa per il 2017 è attorno all’1%, con possibile revisione a seguito del referendum del 4 dicembre, “ma comunque inferiore a quella di altri grandi paesi della zona euro”: piuttosto che niente, meglio piuttosto, verrebbe da dire.