A che serve fare il Congresso ed eleggere il nuovo segretario in queste condizioni? La domanda, che circola tra i militanti del Partito Democratico in queste settimane, non è di poco conto, soprattutto considerando il contesto politico generale e le prospettive nel breve periodo del PD. Probabilmente, un vero confronto sarebbe stato necessario dopo il tracollo del 4 marzo, proprio per evitare che la linea politica in una fase decisiva per l'intero paese fosse dettata in qualche caminetto o da qualche studio televisivo. Nella migliore delle ipotesi, infatti, l'elezione del nuovo segretario e del gruppo dirigente avverrà a pochi mesi dalle elezioni europee, con una campagna elettorale complicatissima da organizzare, condurre e superare. Il nuovo segretario si troverà a dover ricostruire un partito dopo l'ennesima, prevedibile, "non vittoria" elettorale e in un quadro reso ancora più complicato dall'anomalia del governo Lega – M5s. Mentre il Partito Democratico discute di se stesso, o almeno prova a farlo, il resto del mondo va avanti e le condizioni cambiano con velocità impressionante. Chiunque sarà il segretario, insomma, si troverà di fronte un quadro completamente nuovo, che richiederebbe ben altre possibilità di analisi e riflessioni, rispetto all'idea di dover ricucire brandelli di un partito dilaniato da correntismi e personalismi. Mai come ora, il ritardo accumulato a causa di beghe interne, fuoco amico e piccoli sabotaggi, rischia di non essere colmabile.
La strada scelta dal gruppo dirigente del PD, però, è evidentemente un'altra e gli ultimi giorni stanno mostrando tutto il potenziale distruttivo che potrebbe avere un Congresso in queste condizioni. Alle cinque candidature più o meno ufficiali si è aggiunta quella "potenziale" di Marco Minniti, ex ministro dell'Interno, lanciato da un gruppo di Sindaci tra cui spiccano i renzianissimi Nardella, Ricci e De Caro. I retroscena giornalistici di queste ore (tutti simili, anzi praticamente identici) si soffermano su due punti: Minniti trasformerà quella con Zingaretti in una partita vera; Minniti non è un renziano ortodosso, ma è comunque il nome che Renzi sosterrà.
La candidatura dell'ex ministro dell'Interno servirebbe anche a togliere d'impaccio i renziani, combattuti tra la tentazione di far saltare il banco e il rischio di dover uscire allo scoperto con un nome debole contro un candidato come Zingaretti, che è già in campo da mesi e che è visto da molti big del partito come un costruttore di ponti e non di muri. L'ex ministro dell'Interno dovrebbe impedire che la piattaforma politica di Zingaretti eclissi quella renziana, ma anche che la riflessione sul "che fare?" sia influenzata dalle contingenze del momento e dalla necessità di recuperare immediatamente consenso. Serve, come ripetono i fedelissimi renziani, uno sguardo più ampio.
Il profilo di Minniti, infatti, si inserirebbe perfettamente nel progetto a lungo termine cui lavorano alcuni renziani molto ascoltati dal "senatore semplice di Rignano". La ristrutturazione del campo progressista in ottica antipopulista / antisovranista, nella considerazione che l'Italia sia il paese laboratorio del nuovo dualismo che si affermerà negli anni a venire. Una lettura che presuppone la creazione (o almeno la ristrutturazione profonda) di un soggetto politico (Calenda direbbe di un "fronte") che sappia ripercorrere il modello macroniano, ricalibrandolo alla situazione italiana. Quella cui lavora Renzi, come vi spiegavamo qui, è una creatura politica "contro il governo degli sfascisti", proprio perché non considera corretta la lettura di chi vede all'orizzonte un nuovo bipolarismo sovranisti (Lega + estrema destra) / populisti (con il M5s che dovrebbe dialogare con le forze residuali a sinistra) ma crede che ci sia la concreta possibilità di organizzare l'opposizione al fronte unico "populista – sovranista" intorno a un soggetto liberale e moderato, che sia gestito da una classe dirigente affidabile e competente.
L'uomo che ha cominciato la lotta alle ONG non sarebbe d'ostacolo a questo progetto, anzi. Per quanto l'idea di battere Salvini con un "Salvini leggermente di sinistra" non convinca più di tanto alcuni dirigenti molto vicini a Renzi (lo stesso Orfini in questi mesi ha preso più volte le distanze da provvedimenti dei governi precedenti che portano la firma di Minniti), la possibilità di avere un reggente del genere non dispiace. Per una serie di ragioni, di prospettiva, tra cui non va dimenticata la possibilità per Renzi di rientrare in gioco in prima persona, il suo vero obiettivo nel lungo periodo. Del resto, un PD a guida Minniti non guarderebbe mai in casa 5 Stelle e proseguirebbe l'opposizione al governo sulla stessa scia di questi mesi. Quella sintetizzata con l'hashtag #altracosa, per capirci. Nel cassetto finirebbe anche il progetto di ricomporre con i fuoriusciti recenti e meno recenti, così come difficilmente si aprirebbe un dialogo con i soggetti che si collocano e si collocheranno a sinistra del PD. Diciamo che Minniti guarderebbe ad altri soggetti e investirebbe su altri bacini elettorali. Quella stessa "area più larga del PD" di cui parlava Calenda nel suo manifesto programmatico, che abbia un'impostazione moderata e liberale, con le mani libere per affrontare le parole tabù della sinistra. Sicurezza, per cominciare. Nazione, per continuare. Partito senza tessere e sezioni, per finire.