AGGIORNAMENTO 2/1 ore 18:30: Malta ha concesso alla Sea Watch 3 e alla Sea Eye di entrare nelle proprie acque territoriali per trovare riparo dalle avverse condizioni meteorologiche. La decisione è stata presa dopo l'allarme lanciato dai medici, che hanno sottolineato come le condizioni a bordo fossero estremamente precarie, dopo giorni passati in mare aperto e con pochissimi generi di conforto e medicinali.
Il giorno di Natale i circa 300 migranti a bordo della nave Open Arms lo hanno passato in viaggio verso il porto spagnolo di Algeciras, in Andalusia, dopo che Malta e Italia si sono rifiutate di fornire un posto sicuro di sbarco. I 32 migranti salvati dalla nave Sea Watch 3 (cui se ne sono aggiunti altri 17 da un intervento successivo della Sea Eye), invece, hanno vissuto un Natale ancora peggiore, nel limbo fra Italia, Malta e Libia e senza alcuna prospettiva di soluzione immediata. Anche in questo caso, né Italia né Malta, e neanche Paesi Bassi, Spagna e Germania, intendono fornire un posto sicuro di sbarco, anzi, accusano i volontari delle ONG di aver impedito che la Guardia Costiera libica intervenisse. Come se il vero problema fosse rifiutarsi di consegnare 49 persone a un destino di “orrori inimmaginabili” (le parole sono contenute in un report recente delle Nazioni Unite) e non quello di aver fatto accordi scellerati con uno Stato che non ha recepito la Convenzione di Ginevra, non rispetta i diritti umani basilari e affida il mantenimento dell’ordine sulle rotte dei migranti a miliziani e trafficanti stessi.
Ma così vanno le cose nell’epoca del cinismo e della paura, e mentre l’ONU chiede agli stati europei di “riconsiderare i costi umani delle loro politiche e dei loro sforzi per arginare la migrazione”, in Italia si continua a mostrare i muscoli contro gli ultimi della terra. Il ministro dell’Interno Matteo Salvini continua a ripetere compulsivamente che “i porti sono chiusi” e “la pacchia è finita”, il suo sodale Luigi Di Maio glissa amabilmente per non urtare ciò che resta della sensibilità del suo elettorato e il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte è troppo impegnato a costruirsi un’immagine pubblica per interessarsi di questioni del genere. Nei fatti, che quasi 50 persone siano ancora in mezzo al mare, con questo clima e in condizioni estremamente precarie, pare non essere più neanche una notizia.
Cosa accadrà ai migranti della Sea Watch 3 e della Sea Eye
Essenzialmente, non lo sa nessuno e lo stallo potrebbe continuare ancora a lungo. Prima ancora della disponibilità ad accogliere i 49 migranti, occorre risolvere il problema del place of safety in cui la Sea Watch 3 e la Sea Eye possano sbarcare. Malta, Italia e Spagna hanno rifiutato di indicare uno dei loro porti come luogo sicuro per lo sbarco e le ipotesi Germania e Olanda appaiono francamente ridicole. Ritornare in Libia non è e non può essere un’opzione. I due casi sono molto più spinosi dei precedenti, anche considerando che una eventuale disponibilità di qualche Stato europeo ad accogliere i migranti è secondaria rispetto all'urgenza di individuare un porto in cui sbarcare.
Il soccorso è avvenuto in acque internazionali e non è stato coordinato né dalle autorità maltesi né da quelle italiane, dunque, in punta di diritto la questione appare molto complessa. Il diritto internazionale stabilisce che, in linea di principio, uno Stato è libero di regolamentare l’accesso ai propri porti a navi straniere. La Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare del 1982 sancisce che il passaggio di una nave nelle acque territoriali di uno Stato è permesso “fintanto che non arreca pregiudizio alla pace, al buon ordine e alla sicurezza dello Stato costiero”. Agi spiega nel dettaglio qual è la normativa italiana: “Per quanto riguarda la legislazione italiana, il Codice della navigazione stabilisce (all’art. 83) che il Ministero dei Trasporti possa vietare, «per motivi di ordine pubblico, il transito e la sosta di navi mercantili nel mare territoriale» […] Insomma, se si sospetta che la nave stia violando le leggi sull’immigrazione italiane, il diritto internazionale permette alle autorità italiane di impedire l’accesso della nave nelle acque territoriali”.
Dunque, ha ragione il governo italiano sulla legittimità della chiusura dei porti? Non è così semplice. Prima di tutto bisogna chiarire che i porti italiani non sono chiusi, che non c'è mai stato un provvedimento formale di "chiusura dei porti" e che in questi ultimi mesi sono continuati gli sbarchi e gli interventi delle autorità italiane (stesso discorso per quelle maltesi, che solo qualche giorno fa hanno messo in sicurezza circa 70 persone). C'è stato qualche "aggiustamento" nelle regole di ingaggio della Guardia Costiera, con i nostri mezzi che ora pattugliano un'area meno ampia e con meno mezzi (ma ci ritorneremo…). Del resto, che i porti non si possano “chiudere a prescindere”, nemmeno per le ONG, appare un dato assodato, come spiegava il Corsera: “Il rifiuto, aprioristico e indistinto, di far approdare la nave in porto comporta l’impossibilità di valutare le singole situazioni delle persone a bordo, e viola il divieto di espulsioni collettive previsto dall’art. 4 del Protocollo n. 4 alla CEDU”.
Il nostro Governo ora si sta semplicemente rifiutando di indicare un POS a navi che hanno operato in acque internazionali (o libiche) senza ricorrere al coordinamento italiano. Danilo Toninelli e Matteo Salvini se ne stanno letteralmente fregando del destino di 49 persone, nascondendosi dietro una posizione di comodo e attendendo magari che siano altri Stati a farsi carico dell'accoglienza. È il canovaccio adottato anche nel caso della Open Arms, che è riuscita a raggiungere l'Andalusia grazie alla disponibilità del Governo spagnolo. Una linea che è da tempo oggetto di polemiche politiche, ma anche di dubbi dal punto di vita del diritto. Andrea Maestri, di Possibile, chiede che sia la magistratura a intervenire: “Ci sono violazioni di leggi superiori e universali, dalla Costituzione alle Convenzioni internazionali sul diritto del mare e sulla protezione dei rifugiati. Tra tutti, il dovere inderogabile di solidarietà di cui all’articolo 2 e il diritto di asilo di cui all’articolo 10 della Costituzione. C’è una Procura della Repubblica in Italia che voglia valutare la liceità penale di una simile omissione, di soccorso e di atti doverosi, e di una patente violazione del principio di non refoulement, portata avanti con cinica impunità nientemeno che dal ministro responsabile?” Una tesi condivisa dai Radicali Italiani, che hanno scritto a Salvini e Toninelli, chiedendo di aprire i porti “non come implorazione ma come richiesta di rispetto delle leggi, dei trattati internazionali e della Carta universale dei diritti dell'uomo, quelle leggi e quei trattati che valgono innanzitutto per voi che rappresentate il governo di un Paese”.
La soluzione, come detto, appare lontana, anche se c’è una questione ulteriore di cui tenere conto, quella relativa alla eventuale condizione di “distress” (ovvero in situazione di estremo pericolo) in cui le imbarcazioni delle ONG potrebbero trovarsi fra qualche giorno. Spiegava ASGI in un report di qualche mese fa:
Secondo il diritto internazionale generale, uno Stato è in via di principio libero di regolamentare l’accesso ai propri porti a navi straniere. Tuttavia tale libertà può essere limitata da altri obblighi, convenzionali o consuetudinari. In particolare, secondo una norma generalmente accettata, tale principio trova limiti per le navi straniere in situazione di distress (estremo pericolo). Tali navi sono altresì esenti dall’applicazione delle norme locali, incluse quelle di diritto penale. Il diniego di accesso ai porti potrebbe anche porsi in contrasto con altri obblighi assunti dall’Italia. In particolare, potrebbe costituire una violazione degli obblighi derivanti dalla Convenzione europea dei diritti umani, di proteggere la vita (art. 2 CEDU) e l’integrità fisica e morale (art. 3 CEDU) delle persone a bordo della nave, che si trovano soggette alla giurisdizione italiana (art. 1 CEDU).
Anche in questo caso, il processo non appare semplice. E sicuramente provocherebbe delle conseguenze per i membri degli equipaggi delle ONG. Siamo del resto in presenza di un Governo che ha impedito per giorni a una nave militare italiana (!) di sbarcare in Sicilia, lasciando a bordo decine di migranti senza una valida ragione, senza neanche lo straccio di un documento, di un ordine ufficiale.
Il punto è che, al di là della questione giuridica (che ha tempi lunghi), c'è una emergenza umanitaria di fronte alla quale ogni considerazione di altro tipo dovrebbe passare in secondo piano. Ci sono 49 persone che aspettano che l'Europa metta fine al loro calvario di sofferenza e paura. Ci sono uomini, donne e bambini che devono, sì, devono, ricevere l'aiuto di altri uomini, donne e bambini. Ci sono vite umane in pericolo e poterle salvare significa doverle salvare.
Il prodotto della narrazione tossica sui migranti
Ma come si è arrivati a questo punto? Come si è passati a una lettura sostanzialmente univoca della questione migranti? Come si è arrivati al punto che la politica possa considerare un "problema" il fatto di poter salvare la vita a 50 persone che vengono da "orrori inimmaginabili" e dopo giorni da incubo in mare? Come si può guadagnare consenso nel negare l'attracco in porto a una nave con uomini, donne e bambini?
Le responsabilità sono diffuse, con una quota rilevante che spetta ai meccanismi “rapsodici” del mondo dell’informazione. La dinamica è quella descritta perfettamente nella Carta di Roma: “Veniamo investiti da improvvise ondate mediatiche e informative, seguite, per citare i versi di un autore siciliano contemporaneo, da un oceano di silenzio. Che subentra e si allarga quando irrompe una nuova emergenza, una nuova urgenza […] Una questione che da decenni è parte integrante della vita del Paese, viene approfondita episodicamente, di solito in occasione di eventi apocalittici. Col risultato che la regola base della nostra professione – il dovere di restituire la verità sostanziale dei fatti – pare non aver trovato ancora applicazione in questo campo”.
Il combinato disposto fra il giornalismo dei talk show, quello degli opinionisti che parlano senza aver mai letto uno straccio di documento ufficiale, e la politica delle emozioni, in cui personaggi disallineati dalla realtà si divertono a piegare i fatti alle logiche del consenso, ha prodotto una rappresentazione completamente distorta della questione immigrazione. Una narrazione tossica che non ha solo cambiato la percezione pubblica dei fatti, ma che ha determinato le scelte della politica, finendo per cambiare la realtà stessa. Un cortocircuito dell’odio, che ha generato altro odio e sedimentato un pregiudizio difficile da combattere.
Il 30 novembre Tito Boeri, Presidente dell’INPS, ha presentato un interessante rapporto: “Costi e benefici dell’immigrazione tra percezioni e realtà”. È un riassunto preciso di ciò che è avvenuto negli ultimi anni, quando il racconto della realtà, filtrato da emozioni negative, si è sovrapposto alla realtà stessa, finendo con il determinare un clima che ha poi prodotto provvedimenti che avranno conseguenze devastanti nel medio e lungo periodo. Alcuni dati sono particolarmente interessanti e meritorio di qualche considerazione ulteriore. Gli immigrati (regolari, irregolari, richiedenti asilo o titolari di altre forme di protezione), come noto, rappresentano l’8% della popolazione. La percezione è invece totalmente distorta: i cittadini italiani sono convinti che gli stranieri siano il 25%. Il grafico è eclatante:
Anche relativamente ai flussi di ingresso, la discrepanza tra percezione e realtà è enorme, come mostrano le ricerche Google correlato al tema "sbarchi" (linea blu):
Al di là di ogni legittima valutazione politica o ideologica sul fenomeno migratorio, non c'è alcun dubbio che siamo di fronte a un processo di isteria collettiva, realizzato grazie a una evidente mistificazione della realtà dei fatti. Che a farne la spesa siano decine di persone disperate, non è più nemmeno una notizia.