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Opinioni

Per ripartire occorrono capitali e fiducia

Per superare i timori legati alla possibile disintegrazione dell’euro occorrono capitali freschi e fiducia. Mentre finora gli investitori esteri si sono allontanati dal Sud Europa e le banche hanno comprato titoli di stato.
A cura di Luca Spoldi
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L’euro-ecatombe fa paura. Tutti si preparano per la fine dell’euro e l’ecatombe finanziaria che potrebbe seguirne: ha aperto le danze stamane il presidente della Banca Nazionale Svizzera, Thomas Jordan, dichiarando che un gruppo di studio è già al lavoro per valutare ulteriori misure tra cui eventuali controlli sui flussi di capitale (in ingresso), per riuscire a contenere la forza del franco svizzero attraverso “un approccio congiunto tra il governo e la banca centrale” elvetica, aggiungendo che la Svizzera deve essere “preparata all’eventualità di un collasso della valuta unica europea, anche se non se l’aspetta”. Considerando che la scorsa settimana si erano già diffuse voci circa la possibile introduzione a breve di una tassazione sui depositi in franchi svizzeri di non residenti e il fatto che la Confederazione sta portando avanti le trattative per definire un nuovo regime di tassazione dei capitali di non residenti depositati nelle casse delle banche elvetiche (oltre che dei redditi prodotti sugli stessi capitali) e che altre intese erano già state siglate con Germania, Austria e Gran Bretagna, elenco cui si potrebbero aggiungere altri paesi a breve, sembra proprio che la Svizzera si trovi nell’imbarazzante situazione di essere “troppo attraente” per molti investitori del vecchio continente. Ma non è solo la Svizzera a preoccuparsi delle conseguenze di un’eventuale disintegrazione dell’euro: anche il celebre gruppo assicurativo e riassicurativo Lloyd’s di Londra ha fatto sapere oggi di aver ridotto “il più possibile” la propria esposizione nei confronti di Eurolandia e di avere allo studio un “contingency plan” nell’ipotesi di un crollo della moneta unica che segue l’uscita della Grecia dalla valuta unica e un nuovo e definitivo default di Atene (ipotesi che Lloyd’s affronterebbe riadattando una “funzionalità su valute multiple”). Anche se, si è affrettato a precisare anche il numero uno di Lloyd’s, Richard Ward, “personalmente non credo che la Grecia uscirà dall’euro e ne provocherà il collasso”. Certo, il fatto che di tutti questi piani “di emergenza” si parli proprio nel giorno in cui dalla Grecia giungono invece voci di un recupero nei sondaggi di opinione dei partiti pro-euro come Nuova Democratia (fatto che farebbe pensare che sia più probabile un’intesa che consenta all’Eurozona di far quadrato e finalmente, forse, chiudere la “tragedia greca” che si trascina dall’aprile del 2010), fa pensare.

Investitori esteri in fuga. Ma fa pensare anche l’ambivalenza delle notizie che riguardano le banche europee ed italiane in particolare e che si lega al fenomeno di progressivo allontanamento degli investitori internazionali dagli asset finanziaria. Fenomeno che procede parallelamente all’incremento della percentuale di possesso dello stock di debito pubblico da parte di residenti in Spagna ed Italia e che si spiega col “carry trade” che le banche nazionali hanno avviato dallo scorso dicembre utilizzando la liquidità erogata con grande generosità dalla Bce ad oltre 800 istituti di credito del vecchio continente (sia in termini di volumi, pari complessivamente ad oltre mille miliardi di euro, sia di costo, fisso all’1% annuo per i prossimi tre anni) per comprare titoli di stato, amplificando via via il proprio profilo di rischio “banco-sovrano” come ricorda il sempre ottimo Mario Seminerio. Un rischio che al momento ha pagato, ad esempio nel caso di Intesa Sanpaolo, che nei primi tre mesi dell’anno ha guadagnato 274 milioni di euro da queste operazioni (dopo aver chiuso il bilancio 2011 con una perdita netta di 7,6 miliardi legata a rettifiche di valore sull’avviamento per complessivi 10,3 miliardi) e che continuerà a pagare fintanto che il rendimento dei titoli di stato (in questo caso italiani) resterà ad un livello elevato ma a distanza di guardia rispetto alle soglie viste ancora a inizio anno: nel caso del Btp decennale stasera siamo al sul 5,736% (7 punti base più di ieri), con lo spread contro Bund in crescita al 4,37% (7 punti base sopra i livelli della vigilia), rispettivamente contro un minimo del 4,81% a inizio marzo e un massimo del 7,16% ai primi di gennaio, nel caso del rendimento, e di un minimo del 2,78% e un massimo del 5,31%, nel caso dello spread contro Bund decennali tedeschi negli stessi periodi. Se tuttavia qualcosa andasse storto anche per le banche italiane si prospetterebbe lo spettro che affrontano al momento gli istituti spagnoli, per i quali secondo le ultime stime occorreranno almeno 60 miliardi di euro solo per adeguare svalutazioni e riserve per le perdite legate all’esposizione al mercato immobiliare (con Bankia che dopo essere già stata nazionalizzata al 45% un paio di settimane or sono ha annunciato venerdì di stimare in 19 miliardi, e non 16 miliardi come previsto dal mercato, il totale degli aiuti di stato di cui avrà bisogno).

Occorre recuperare la fiducia. Un’ipotesi che richiederebbe ben altro che un “artificio contabile”, peraltro legittimo e appena approvato dalla Banca d’Italia, come quelli adottati da Banco Popolare e Ubi Banca (subito “bacchettate” da Moody’s secondo cui sarebbe stato preferibile che i due istituti avessero raccolto mezzi freschi). Già, ma per superare l’empasse e trovare nuovi capitali attraverso cessioni, come quelle che hanno avviato in Italia il Montepaschi, prossimo a cedere il controllo di Biverbanca e forse una fetta consistente degli sportelli di Antonveneta, piuttosto che la stessa Intesa Sanpaolo, che sembrerebbe intenzionata a tagliare di un 20% il numero delle proprie filiali tramite cessioni e chiusura, o Barclays Italia (che starebbe valutando se cedere o ristrutturare “drasticamente” le sue 192 filiali italiane, stante un andamento dei conti tutt’altro che soddisfacente), o anche, in Spagna, Banco Santander e Bbva (entrambi impegnati a cedere portafogli di asset composti da immobili, o mutui “non performing” o crediti al consumo), piuttosto che attraverso nuovi aumenti di capitale, occorre anzitutto poter riguadagnare la fiducia degli investitori. Proponendo storie di “turnaround”, di ripresa, di nuovi modelli di business che superino i limiti e le contraddizioni di quelli attuali. Servirebbero volti nuovi, idee nuove, regole nuove, il tutto non solo a livello nazionale ma anche a livello europeo, perché come più volte detto stiamo attraversando una crisi sistemica, da cui possono nascere importanti occasioni di rilancio e di crescita, a patto di saperle coltivare e cogliere al momento opportuno a tutti i livelli, sia nel settore creditizio (che dovrà per forza tornare a fare il suo lavoro prima o poi, ossia a prestare denaro alle imprese più solide e dalle migliori prospettive future) sia in quello industriale e dei servizi. Settori, purtroppo, che continuano per primi a registrare un calo di fiducia anche in Italia, come testimonia mese dopo mese l’Istat: ed allora non si può sperare di far ripartire nulla, se i nostri imprenditori per primi non trovano motivi per essere più fiduciosi. Il mondo della politica (e dei tecnici prestati alla politica) dovrebbe tenerlo ben a mente, anziché perdere nuovamente tempo parlando di massimi sistemi e continuando a frenare ogni riforma in grado di far ripartire questo paese, a cominciare dai suoi giovani talenti.

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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