Lo strappo era nell’aria, ma l’epilogo è tutt’altro che scontato. La contrarietà della minoranza del Partito Democratico alla versione dell’Italicum approvato al Senato della Repubblica è infatti nota da tempo e quanto accaduto nella serata di ieri (con l’abbandono dell’assemblea di gruppo e il via libera alla proposta del segretario, approvare definitivamente l’Italicum alla Camera, appoggiata da soli 190 deputati su 310) è diretta conseguenza della chiusura totale della maggioranza ad ogni “ulteriore mediazione”. Tant’è vero che Speranza, che sulla mediazione aveva scommesso, non ha potuto far altro che prendere atto della disgregazione del gruppo a Montecitorio e rassegnare le proprie dimissioni da capogruppo.
Le posizioni sono chiare, un po’ meno la consistenza numerica delle due fazioni. Renzi non ha alcuna intenzione di modificare nuovamente la legge perché vuole evitare di ritrovarsi impantanato al Senato e soprattutto perché considera l’Italicum il “frutto accettabile di un compromesso” (in effetti la proposta originaria ha subito ben più di una modifica), oltre che uno strumento di pressione essenziale sull’intero arco parlamentare. Renzi, il solo che vuole andare alle urne, sa benissimo che con il Consultellum non è ipotizzabile lo scioglimento delle Camere: fintanto che l’Italicum non è al sicuro, dunque, quella del ritorno alle urne resterà una minaccia a salve. Allo stesso tempo, il segretario del PD ritiene che una legge siffatta (con premio di maggioranza alla lista e capilista bloccati) sia perfettamente compatibile col “suo modello”: governabilità, ridotto peso politico delle correnti, ridimensionamento dei piccoli partiti, controllo degli eletti e “primo passo” verso il presidenzialismo.
La minoranza del PD invece considera grossolana ed imprecisa la proposta di legge elettorale, con “gravi rischi” per la democrazia dal combinato disposto con la riforma della Costituzione. E chiede modifiche sostanziali ad aspetti cardine della proposta: no ai 100 capilista bloccati che “produrranno un Parlamento fatto a maggioranza di nominati”, con le preferenze che varranno solo per il partito che vince le elezioni e con una evidente disparità fra chi si sottopone al giudizio dei cittadini (con le preferenze) e chi invece è eletto per scelta del leader di partito; no ai collegi di 600mila abitanti, quattro volte più estesi di quelli del Mattarellum, che negano il “rapporto privilegiato dell’eletto con il territorio”; no alla ripartizione dei seggi su base nazionale, che favorisce quei candidati bocciati dal territorio; no al ballottaggio senza apparentamenti con premio alla lista. Richieste che in parte servono proprio a “tutelare sé stessa” dal modello dirigista e centralista immaginato dai renziani. In particolare, la proposta (esplicitata da Gotor) di consentire un apparentamento al momento del turno di ballottaggio sembra proprio una specie di paracadute nel caso in cui davvero si arrivasse ad una scissione.
Già, la scissione. Al momento si tratta di una prospettiva irrealistica, proprio considerando la complessità della partita e tenendo presente che non esiste “una minoranza” nel Partito Democratico, bensì 4, forse 5, mini-correnti, con orientamenti e obiettivi anche molto diversi. E anche l’ipotesi di un nuovo gruppo parlamentare non ha fondamento: con una scelta del genere i “ribelli” sarebbero definitivamente fuori dal partito e senza alcun tipo di prospettiva a breve termine. Su tale debolezza Renzi ha giocato molto, spingendo molto ed imponendo voti su voti, sempre concedendo il minimo: Jobs Act, Sblocca Italia, banche popolari, riforma costituzionale, decreto antiterrorismo. Le minoranze, salvo rarissime eccezioni, hanno sempre abbozzato, con “penultimatum” spesso inconsistenti. Ora però sembrano intenzionate a tenere il punto, portando fino in fondo lo strappo “di metodo e di merito”.
Ed è questa la più grande vittoria di Renzi: aver spinto le minoranze a ribellarsi sull’argomento “politico” per eccellenza, il meno comprensibile a cittadini e militanti e, dunque, il meno spendibile nella battaglia del consenso. Nessuno infatti capirebbe un affossamento del Governo sulla legge elettorale, soprattutto da parte di chi ha chinato il capo praticamente su tutto. E Renzi avrebbe buon gioco nel relegare la battaglia sulle regole del gioco (che è fondamentale, ma questo lo sanno i politici e pochi altri…) a deriva politicista, a “difesa di rendite di posizione”, ripescando il meglio del suo repertorio fatto di paludi, gufi, professoroni e dinosauri della politica. Insomma, ancora una volta il Presidente del Consiglio si trova in una posizione di forza, tanto da pensare ad una ulteriore accelerata, ponendo la questione di fiducia sulla legge elettorale.
Il senso è chiaro: mettere la fiducia (al netto delle sacrosante polemiche dell’opposizione) significherebbe in ogni caso determinare la fine della legislatura, come notava anche Cuperlo; costringere i dissidenti a schierarsi apertamente contro il partito e a mettere a rischio il Governo per depotenziare le istanze di merito; ottenere il via libera definitivo alla legge elettorale e avere la possibilità di andare alle urne a breve giro di boa (anche senza attendere la fine del percorso di riforma costituzionale). Una ipotesi tutt'altro che lontanissima, soprattutto considerando la spregiudicatezza del segretario, che spesso ha dimostrato di fregarsene letteralmente delle questioni di metodo e di "rispetto dell'etichetta", avallando anche delle vere e proprie forzature (qualcuno si ricorda del supercanguro?).
Questo lo sanno in molti all’interno della minoranza, tanto che qualcuno ha già proposto il piano B. Che poi è anche l’unico sostenibile politicamente e “a volto scoperto”: abbandonare l’Aula al momento del voto finale sui 4 articoli della legge elettorale, evitando agguati a voto segreto, lasciando che i renziani si approvino da soli l’Italicum (sempre ammesso che abbiano i voti) e garantendosi ancora qualche mese di “agibilità politica”. L’alternativa? Gli agguati a voto segreto. Poca roba, in effetti.
PS: certo, ci sarebbe anche il piano C, come coerenza. Ovvero andare fino in fondo, mettendo la faccia sul no all'Italicum ed assumersi la responsabilità politica della fine della legislatura (e forse di questo PD). Una scelta che, anche stavolta, faranno in pochissimi.