Oggi e domani sarà uno dei protagonisti al Festivaletteratura di Mantova, nel pomeriggio in dialogo con Wlodek Goldkorn e Sigmund Ginzberg, domani in un incontro su scelte letterarie e di vita, a partire da un nume tutelare della letteratura contemporanea, Philip Roth. Il 2016 di Paolo Di Paolo, uno dei più affermati scrittori della scena letteraria italiana, è stato un anno prolifico. Un romanzo con Feltrinelli "Una storia quasi solo d'amore", la riedizione per Bompiani del volume "A Roma con Nanni Moretti” scritto con Giorgio Biferali, ed è in uscita per Einaudi (il prossimo 27 settembre) un saggio dal titolo "Tempo senza scelte".
Proprio in questi ultimi mesi, dopo la pubblicazione di "Una storia quasi d'amore", Paolo Di Paolo ha maturato un'idea precisa di quanto sia diventato marginale, per il dibattito pubblico, scrivere e pubblicare romanzi nel nostro paese, scegliendo (almeno temporaneamente) di solcare un'altra via, quella saggistica appunto. Un suo recente post sui social è lo spunto di questa chiacchierata:
Tra un mese esce, per Einaudi, un piccolo libro che non è un romanzo. Un po' speravo ancora che i romanzi potessero creare discussioni, ma da noi non accade più. Proviamo con un'altra forma.
Di Paolo, cosa sta succedendo al romanzo italiano? O meglio, cosa sta succedendo alla sua capacità di incidere sulla realtà che ci circonda?
Mi pare che in altri momenti della nostra storia editoriale (e letteraria) è accaduto che un romanzo scatenasse dibattiti di natura critica, sociologica, politica. Oggi, invece, semplicemente non accade più.
Altrove, invece, succede?
In Francia, solo qualche mese fa, la pubblicazione del romanzo di "Sottomissione" di Michel Houellebecq ha suscitato un dibattito notevole, se ne parlava nei talk show televisivi, in radio, tra la gente. Vero è che quel libro è uscito negli stessi giorni del massacro a Charlie Hebdo. Eppure altrove accade con più frequenza. Ci sono altri esempi, meno conosciuti da noi, che mostrano il senso di quanto i romanzi facciano discutere. Sempre in Francia tempo fa mi capitò di assistere a dibattiti televisivi intorno a un altro romanzo, "2084. La fine del mondo" dello scrittore franco-algerino Boualem Sansal.
Questi esempi dimostrano che la capacità di alimentare discussioni da parte di un romanzo dipende dal suo contenuto, dal modo in cui si pone in interconnessione con gli orizzonti della sua epoca.
Il che ci porta dritti al cuore del problema, cioè alla ragione per cui da noi questo non accade. Quella che mi verrebbe da definire la "mistica dello storytelling" sta producendo forse qualche danno. Anch'io penso come molti che la serialità e le serie TV stiano offrendo risultati notevoli in termini di efficacia narrativa e di estetica, però credo anche che la letteratura debba a maggior ragione rivendicare per sé un ruolo diverso. Anche perché se la letteratura si mette a inseguire le storie su quel terreno, finirà per arrancare sempre. Scrivere un romanzo non è, non può essere soltanto raccontare una storia, ma dovrebbe essere anche qualcosa di più, un esperimento conoscitivo, stilistico, una sfida diversa.
Arriviamo alle responsabilità. A suo avviso, come vanno divise?
Equamente tra editori, giornalismo culturale e scrittori. Per quanto riguarda i primi, in parte l'ho già spiegato. Lo "storytelling" inseguito in maniera acritica. Per quanto riguarda i secondi, invece, il problema è anche più complesso. Mi sembra di intravedere, nel panorama attuale dei media, una certa pigrizia mentale. Il giornalismo culturale su carta, che è di per sé moribondo, ha smarrito la volontà di animare un dibattito a partire dai libri. Naturalmente non riguarda tutti. Mi sembra però un fatto che il giornalismo culturale di oggi è sempre più ostaggio di monadi, da gruppi ristretti che si limitano a elogiare un libro o a non elogiarlo, cioè a ignorarlo, in maniera precostituita, in base a rapporti personali, editoriali, relazioni. Un romanzo come quello di Edoardo Albinati, "La scuola cattolica", pur avendo vinto lo Strega, è riuscito solo parzialmente, nonostante la vastità di temi significativi, a scatenare dibattiti che non fossero limitati allo scontro tra chi lo avrebbe votato o non votato o, peggio ancora, relativi alla sua notevole lunghezza. E sul web la situazione non migliora. Anche lì ci si divide troppo spesso in piccole, piccolissime cerchie auto-compiaciute. Si è tutti a favore o tutti contro, a prescindere dal contenuto, è la vittoria del giudizio preventivo. E d'altra parte il professionismo dei leccaculo, più ancora che quello di trolls e haters, è completamente fuori controllo.
Uno dei mestieri più antichi del mondo…
Sì, ma è senza logica, senza coerenza, è trasversale, schizofrenico. I libri non c'entrano, non c'entra la curiosità autentica.
E le responsabilità degli scrittori? Quali sono?
Recentemente, su Repubblica, ho letto un'intervista a un ottimo scrittore come Vitaliano Trevisan, il quale ha dichiarato di non leggere i libri degli scrittori italiani contemporanei perché sono "deboli". Ma, mi chiedo, come fa a saperlo visto che non li legge? In generale, mi sembra che in altre stagioni gli scrittori si leggevano a vicenda con un'attenzione diversa, con un desiderio autentico di confronto. Nessuna nostalgia o idealizzazione, potevano essere meschini, pettegoli e insulsi come noi. Ma guardavano al lavoro altrui come a qualcosa di essenziale, di formativo. Aprire a caso, per credere, l'epistolario di Calvino. Scrive a Pasolini, alla Morante, al giovane sconosciuto, dialoga, entra nel merito, cerca sempre qualcosa, soprattutto in chi è diverso da lui. "Ragazzi di vita" non gli è piaciuto? Lo scrive all'interessato. E gli spiega perché, e lo interroga, e si interroga. Noi cos'abbiamo? Piccole gang o ghenghe in cui ci si riconosce solo fra simili. Zero curiosità! Ciao, sei un mio amico minimum? Allora ti leggo! Ciao, sei un mio amico Einaudi? Allora ti leggo o fingo di leggerti. Ciao, sei un mio amico xy? Allora aspetta che ti faccio un bel post, ti riempio di cuoricini…
C'entra, in questo, quel "romanocentrismo" di cui spesso si accusa il sistema culturale italiano? Anche se i maggiori gruppi editoriali si trovano al Nord, il dibattito sembra sempre svilupparsi internamente a logiche romane, dalla politica alle televisioni…
A Roma vivono tanti scrittori, forse più che a Milano, ma non è questo il punto. Siamo tanti, diversi, eppure non scatta un vero dialogo. L'unico tentativo collegiale fu provato qualche anno fa con l'esperienza dei TQ, ma quel gruppo aveva un enorme limite, proprio la base generazionale dell'iniziativa. In ogni caso, dopo quell'esperimento, nulla più è stato tentato. E così ci si è più o meno apertamente iscritti – tutti o quasi – alla propria palestra di riferimento. Da li non si esce, e d'altra parte basta mostrare i muscoletti quando serve.
Ed è questo il "Tempo senza scelte" che stiamo vivendo e che racconterai nel libro in uscita a fine settembre?
Non lo so. Però so che dalla delusione relativa alle possibilità di generare discussioni del romanzo, ho deciso per il momento di spostarmi su altre forme di espressione, sperando che la saggistica (che ha un pubblico spesso molto diverso da quello del romanzo) riesca ad animare un piccolo dibattito attorno ai nodi dell'epoca che stiamo attraversando. Il libro racconta di scelte individuali e collettive, dello scrivano di Melville e del protagonista di "Nemesi" di Philip Roth, di Benjamin e di García Lorca, di gente che ha scelto, doveva scegliere, voleva scegliere. E di noi, in un tempo che a volte sembra – sembra – senza scelte.