Palermo 1982, quando la mafia uccise il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa
"Appena è uscito lui con sua moglie … lo abbiamo seguito a distanza … tun … tun … è morto al primo colpo. Eravamo un sette, otto di noi, di quelli terribili". Nella cella del carcere di Opera, coi suoi 83 anni anni suonati, il corpo stanco e appesantito, il viso da uomo comune, l'ex boss di Cosa nostra che ha diretto l'Italia da una cabina di regia segreta, rivive uno dei tanti episodi della sua vita di criminale barbaro, di assassino inumano. Sprezzante e annoiato, Totò Riina, ‘La belva', ricorda uno dei tanti pezzi della storia della nostra Repubblica.
Mafia, criminalità e terrorismo
Carlo Alberto Dalla Chiesa ebbe una carriera sfolgorante. Da giovane militare di Saluzzo, sperduto paesino del Piemonte, aveva fatto la Resistenza, combattuto il fenomeno del banditismo del Dopoguerra e asceso alla carica di colonnello con la quale aveva indagato sui casi più scottanti dell'Italia degli Anni Settanta, quella del miracolo economico e delle scosse del terrorismo politico, con i suoi cadaveri ‘eccellenti' e le stragi mai spiegate. Da colonnello aveva seguito le indagini sull'omicidio del procuratore Pietro Scaglione, il primo giudice ucciso dalla mafia a Palermo. Grazie al suo lavoro fu arrestato Luciano Liggio, alias Lucianeddu, feroce assassino che tra le sue vittime ebbe anche Placido Rizzotto.
Sempre in Sicilia, Dalla Chiesa si trovò tra le mani un altro importante caso, di quelli che facevano tremare le vene: l'efferato omicidio di tre bambine a Marsala, un altro ‘pasticciaccio brutto' che portava la firma di Cosa nostra. Negli anni Ottanta, l'ormai generale fu l'uomo della lotta al terrorismo rosso, artefice di importanti operazioni contro i brigatisti e custode di indicibili segreti del caso Moro. Nonostante gli ottimi risultati il Nucleo Antiterrorismo venne sciolto e il generale venne posto in congedo dall'Arma e nominato dal Consiglio dei Ministri, prefetto di Palermo.
I cento giorni
Un incarico importante, delicato, cruciale. Eppure, in una discussa intervista a Giorgio Bocca, il generale lamentò di non aver ricevuto i ‘pieni poteri', di non poter, di fatto, agire efficacemente per scardinare il sistema, di avere le mani legate, insomma. Nelle stanze del potere, tuttavia, qualcuno decideva che l'attività di quell'uomo abile e intelligente dovesse essere fermata. La sera del 3 settembre 1982, mentre viaggiava in auto con la moglie, Emanuela Setti Carraro, il militare di Saluzzo che combatté i tedeschi fu ucciso a colpi di Kalashnikov AK-47. Un'esecuzione spietata, militare, che straziò la giovane moglie e l'agente di scorta Domenico Russo. Carlo Alberto Dalla Chiesa fu ucciso dopo soli cento giorni di operato come prefetto. I palermitani piansero la sua morte con la frase: "Qui è morta la speranza dei Palermitani onesti".
L'epilogo
Per le strage di via Carini furono condannati come mandanti i pezzi da Novanta di Cosa nostra, Totò Riina, Bernardo Provenzano, Michele Greco, Pippo Calò, Bernardo Brusca e Nenè Geraci. Le indagini ufficiali hanno stabilito che a motivare la condanna da parte dei capimafia fosse stata l'attività da prefetto di Palermo. Sulla sua morte sono circolate alcune teorie che ipotizzano che il generale sia stato ucciso per ciò che aveva scoperto nell'ambito delle sue indagini sul caso Moro: il giornalista Mino Pecorelli, amico del generale ucciso nel 1979 in circostanze misteriose, dichiarò che i documenti rinvenuti sul caso contenevano informazioni su presunte responsabilità politiche del sequestro dello statista della DC. Anni dopo, il superpentito Tommaso Buscetta, ricorderà una frase dettagli dal boss, Gaetano Badalamenti:
Dalla Chiesa lo hanno mandato a Palermo per sbarazzarsi di lui. Non aveva fatto ancora niente in Sicilia che potesse giustificare questo grande odio contro di lui.
La morte del generale ha lasciato soli i tre figli Rita, Simona e Nando Dalla Chiesa, orfani. Proprio Rita, divenuta poi una nota conduttrice televisiva, ha ribadito più volte la solitudine in cui suo padre erano stato lasciato.