Only God Forgives: lo spettacolo della violenza
Il cinema di genere oppure il cinema d’autore. La narrazione, lineare o complessa che sia, contro il cinema d’atmosfera. E ad un livello ulteriore, le opere di alcuni registi, che si accolgono o si rifiutano valicando tutti i confini. Non c’è dubbio che il cinema di Nicolas Winding Refn appartenga a quest’ultima categoria.
Chiunque sperava in Only God Forgives come nel sequel di Drive non ha ben presente il percorso del regista danese, che è iniziato con Pusher, completato poi in una trilogia, si è consolidato in Fear X e Bronson, tutti titoli da un comune denominatore dettato dall’ossessione per la violenza. Che esplode smarrendo completamente i limiti della narrazione nell’arcana lentezza di Valhalla Rising, ultimo capitolo del Refn più duro e puro prima di Drive, il titolo della consacrazione, nonché unica occasione in cui il regista mette insieme un racconto fruibile ad un pubblico non strettamente cinefilo. Come avrebbe mai potuto un cineasta come Refn assecondare il successo e seguire una linea tracciata? Assodata come certezza (e non avevamo neanche bisogno di questa ulteriore prova), la totale ostilità di Refn verso le classiche dinamiche produttive di un cinema “per tutti”, ha più senso cercare di capire cosa ci cela dietro quei ralenti che procedono all’interno degli spazi angusti e dei sobborghi di Bangkok, teatro di violenze inaudite perpetrate da individui bizzarramente fedeli alle proprie morali e ai propri desideri di vendetta.
Innanzitutto, Only God Forgives è una collezione di tutte le influenze che il grande cinema mondiale ha avuto su Refn. Per
quanto risulti detestabile la recente tendenza di qualificare come lynchiano tutto ciò che è fuor di logica, ma in maniera teatrale, in questo caso il richiamo ad esempio a Blue Velvet, si fa vero e proprio omaggio. Così come le altrettanto abusate escalation di violenza “alla Tarantino”, sembrano in qualche sequenza quasi citate. Di sicuro Refn deve aver apprezzato un capolavoro dei nostri tempi, Animal Kingdom di David Michôd, in cui la terribile mater-violentia sembra addirittura mutuata dal personaggio interpretato da un’inedita Kristin Scott Thomas, icona di quell’eleganza di stampo europeo, qui trasfigurata all’inverosimile. Ma il regno in cui un film del genere potrebbe troneggiare a pieno titolo è quello del cinema asiatico, da Tsukamoto Shinya (Tetsuo) Chan-wook Park (Oldboy) fino al primo, e poi recentissimo, Kim-Ki Duk, premiato quest’anno con il Leone d’Oro a Venezia con un’opera, Pietà, il cui plot non è troppo distante da Only God Forgives.
Tra citazioni e sussurri dal cinema globale, si dipana una quasi-vicenda nel segno assoluto della vendetta. Poco importa che Julian, il protagonista, nella sua totale abnegazione alla violenza cerchi però di colpire solo chi se lo merita. Così come non c’è bisogno di un racconto, ancora una volta il cinema di Refn ci mostra che non abbiamo bisogno nemmeno di eroi. Questo è lo spettacolo della violenza fine a se stessa, degli schizzi di sangue che si fanno storia sul volto attonito di un protagonista, un Ryan Gosling che aggiunge un altro importante tassello alla sua costruzione di un anti-divo, strenuo antagonista dello star-system (che altrimenti lo avrebbe ingabbiato in ruoli da belloccio smaliziato/sotto sotto cuore d’oro).
Dove ci trasporta un cinema del genere? Nel recupero della visione assoluta, fondamento della Settima Arte? O semplicemente, nel rifiuto del plot e di conseguenza, delle facili catalogazioni? Quanto aggiunge all’evoluzione della critica cinematografica uscire dalla sala e gridare al polpettone nonsense, al “tutto sbagliato”, come le tante voci che ci sono giunte da Cannes? Probabilmente, nulla. Un cinema di questo tipo può non essere digerito, chi dice il contrario. Ma di sicuro non ha bisogno di essere perdonato.