L’Italia non deve cercare di tagliare a tutti i costi in tempi brevi il deficit, ma puntare sul varo di riforme in grado di consolidarlo a medio termine in quanto in questo modo, anche grazie a ulteriori misure di stimolo monetario, potrà rafforzarsi l’attività economica dell’ex “bel paese”. Questa volta il consiglio viene direttamente dall’Ocse, che nell’ultima edizione del suo Economic Outlook, pubblicata stamane, segnala come Eurolandia dovrebbe continuare a registrare una crescita “modesta”, a causa della “mancanza di domanda” e di “fattori strutturali” che agiscono da ostacolo alla ripresa, “aumentando il rischio di una prolungata recessione”. Poi la conferma di quanto in Italia già molti avevano capito (ma forse non a Berlino): “le politiche di contenimento della domanda” (ossia la “cura tedesca”) “spiegano in parte questa debolezza” che però dipende anche dal fatto che mentre “alcuni paesi hanno fatto buoni progressi sul fronte delle riforme strutturali per ribaltare il declino della crescita, altri devono fare sforzi ulteriori”.
Parlare a Sparta perché Atene comprenda sembra la strada scelta dall’Ocse che aggiunge: “tutta la flessibilità e discrezionalità, all’interno delle regole fiscali della Ue, dovrebbe essere utilizzata per ridurre il drenaggio sulla domanda”. In particolare mentre “in Germania una spesa più elevata (per esempio per costruire nuovi asili nido o infrastrutture) incrementerebbe la domanda dell’area euro, risolvendo alcune debolezze infrastrutturali” di cui da tempo soffre anche Berlino, nel caso di Francia e Italia “il rinvio del consolidamento può essere giustificata in un contesto di debole crescita e di nuove riforme strutturali”, mentre “agli stabilizzatori automatici dovrebbe essere consentito di operare pienamente”. Il problema di cui pochi sembrano finora essersi resi conto (ma non i miei cari lettori, vero?) è che tirare la cosa alle lunghe, come attualmente sembrano intenzionati a fare i politici europei, significa andare incontro a “un deterioramento a lungo termine della crescita potenziale” per evitare il quale sono indispensabili riforme strutturali.
Di più: in Italia (e in Spagna) c’è spazio “per trasformare la composizione di entrate e spese pubbliche più favorevole alla crescita”, così come (in Francia secondo l’Ocse, ma evidentemente anche in Italia) “ridurre il cuneo fiscale sul lavoro farebbe aumentare la domanda di lavoro” da parte delle imprese. Su questo punto peraltro non c’è da sperare in grandi novità a breve visto che come detto più volte per rendere il lavoro italiano (che non costa più delle medie europee a livello di “netto in busta”, mentre è sensibilmente superiore a livello lordo proprio per l’eccessivo peso del cuneo fiscale) più “competitivo” servirebbe una riduzione nell’ordine dei 50 miliardi l’anno che al momento non è semplicemente possibile attuare. Mentre procedere a colpi di “limature” di qualche miliardo di euro l’anno già si sta rivelando difficile (basti pensare al balletto vergognoso sull’Irap culminato, nel disegno di Legge di Stabilità attualmente all’esame del Parlamento, in “sconti” procrastinati al 2016 e incrementi delle aliquote fatti scattare retroattivamente da quest’anno) e comunque non produrrà che un riequilibrio impercettibile.
Per una volta sul banco degli imputati l’Ocse non mette solo l’Italia o il Sud Europa: la Germania, suggerisce l’organizzazione per lo sviluppo economico e la cooperazione, dovrebbe liberalizzare il settore dei servizi per stimolare gli investimenti (prima di bacchettare continuamente l’Italia e la sua scarsa apertura alla concorrenza, aggiungo io), mentre se tutti i paesi membri si impegnassero in azioni “più ambiziose per completare il mercato unico” (e possibilmente arrivare ad una vera unione politica europea, aggiungo), si otterrebbe “un impatto maggiore per tutti gli stati”. Insomma: dalla crisi non si esce continuando a stringere la cinghia sino a soffocare o morir di fame, si riparte solo cambiando mentalità, rimettendosi in gioco, a patto ovviamente di rinnovare l’intera propria struttura economica e soprattutto, torno a ripetere, rinnovando la propria cultura economica e sociale.
Discorso che per l’Italia vale almeno il doppio visto la generale arretratezza che il paese, dominato da oltre un ventennio da un consociativismo perfettamente rappresentato da ultimo nel “patto del Nazareno” che tutele gli interessi di alcune minoranze (sempre meno, eppure ancora) “rilevanti”, ha accumulato un distacco marcato da paesi come Francia, Inghilterra, Germania o persino Spagna sia a livello di nuove infrastrutture (tecnologiche prima e più che “asfalto&cemento”, che in molti casi servono principalmente alle imprese coinvolte nella realizzazione di opere che erano necessarie alcuni decenni fa ma ormai rischiano di non esserlo più) sia di capacità di immaginarsi nuovi prodotti e servizi e trovare i capitali necessari al loro sviluppo, sia di regolamentazione che consenta agli imprenditori di veder rapidamente realizzate le proprie iniziative e ai consumatori di veder comunque tutelati i loro diritti. Se poi aveste ancora dubbi, gli esperti dell’Ocse ribadiscono: “un pacchetto di riforme credibili può incrementare la fiducia, fornendo uno stimolo immediato alla domanda”.
Intervenire è urgente, perché allo stato attuale, rispetto ai livelli pre-crisi, solo la Germania (e non sarà un caso) vede il suo potenziale di crescita aumentato di circa il 5%, mentre tutti gli altri paesi dell’Unione Europea hanno visto ridursi la propria crescita potenziale e se la Francia può essere soddisfatta di avere tuttora una crescita potenziale di poco inferiore a quella di cui disponeva prima della crisi, già l’Italia ha visto il proprio potenziale ridursi di oltre il 4%, l’Olanda del 5%, la Spagna di quasi il 6%, l’Irlanda, che una parte della letteratura economica e politica vorrebbe “allieva prediletta” della “troika” Ue-Bce-Fmi ha subito un calo della crescita potenziale nell’ordine del 10%, la Grecia, “aiutata” dalla stessa troika in cambio della promessa di rilevanti riforme (solo in parte attuate) sfiora addirittura un calo del 25% della propria già non esaltante crescita potenziale. Qualcosa insomma non ha funzionato nella gestione “post-crisi” in Europa ed è ora di prenderne atto. Voler continuare su una strada di solo rigore “senza se e senza ma” equivarrebbe a impiccarsi con le proprie mani e non pare il caso.
Anche perché se per l’Italia l’unica via d’uscita dalla prolungata recessione è di proseguire “con determinazione” il programma di riforme così da rendere “sostenibile” una crescita più robusta in futuro (pur dovendosi scontrare, aggiungo io, con un quadro demografico tutt’altro che favorevole a una crescita strutturalmente più elevata, il che richiederà a un certo punto che si modifichino significativamente anche le politiche a favore delle famiglie o tutto sarà vano), l’Ocse ha rivisto al ribasso le proprie previsioni sul Pil (visto ora in calo dello 0,4% quest’anno, in crescita dello 0,2% l’anno prossimo e dell’1% nel 2016) e si attende ora che il rapporto deficit/Pil dell’Italia sia pari al 3,0% quest’anno, al 2,8% il prossimo e al 2,1% nel 2016 (le stime precedenti, formulate a maggio, parlavano di un 2,7% quest’anno e di un 2,1% nel 2015), con un rapporto debito/Pil destinato a salire al 130,6% quest'anno, al 132,8% nel 2015 e al 133,5% l’anno successivo.
Un elemento quest’ultimo che rimane “di significativa vulnerabilità” per l’economia italiana e che induce l’Ocse a consigliare che “man mano che la crescita migliora, il maggiore gettito fiscale dovrebbe essere sfruttato interamente per la riduzione del debito”. Ma meno debito pubblico significa anche minore clientelismo politico e questo a qualche minoranza potrebbe non piacere, con la tentazione, forte, di continuare a far pagare il conto a “Pantalone”. Consiglio spassionato: restiamo tutti “in campana” perché il momento della verità, in tutti i sensi, sta avvicinandosi.