Occhi puntati sulla Bce che ieri ha preannunciato un incremento degli acquisti di bond sul mercato tra maggio e giugno, in vista di un successivo rallentamento nei mesi di luglio e agosto in parallelo all’abituale calo della liquidità sui mercati nei mesi estivi, ed oggi si riunisce a Francoforte per decidere se modificare i requisiti per i collaterali (titoli che debbono essere dati a garanzia dei prestiti ricevuti) richiesti alla banca centrale di Grecia per accedere a ulteriori finanziamenti, in particolare nell’ambito del programma Ela (Emergency liquidity assistance), attraverso il quale sono già stati forniti 80 miliardi alla Grecia che li ha in gran parte girati alle sue banche commerciali, da cui privati e aziende hanno nel frattempo ritirato depositi per quasi 30 miliardi di euro dallo scorso mese di dicembre.
Secondo molti la discussione, il cui esito non è ancora stato ufficializzato mentre scriviamo questo articolo, dovrebbe confermare le cose come stanno e, forse, accogliere in tutto o in parte le richieste di ulteriore erogazione di fondi (si parla di 1,1 miliardi di euro richiesti), anche se quest’ultimo punto è dato meno per scontato visto che la Banca di Grecia ha ancora in cassa parte dei fondi e che nell’ultima settimana la situazione sul fronte del ritiro dei depositi sembra essersi stabilizzata. Nei giorni scorsi un report di Moody’s aveva segnalato come Atene avrebbe in realtà bisogno di controlli dei capitali simili a quelli adottati da Cipro (i cui progressi sono oggi stati valutati positivamente dalla Commissione Ue che ha quindi dato il via libera ad un’ulteriore tranche di aiuti, sulla quale deciderà l’Eurogruppo).
Un’ipotesi che sul mercato circola già da tempo, visto appunto la non sostenibilità in eterno del meccanismo con cui la Bce fornisce alla banca centrale greca liquidità da questa iniettata nelle banche (per le quali tali fondi rappresentano ormai circa un terzo degli asset totali, contro il 12% che rappresentavano a fine settembre scorso), le quali a loro volta la girano ai propri clienti che prelevano i capitali e almeno in parte li riversano all’estero. Mario Draghi, presidente della Bce, ha già detto più volte che spetta alla politica prendere una decisione in merito alla solvibilità o meno della Grecia e dunque è difficile pensare che voglia premere il pulsante del “game over” a poche ore da un nuovo euromeeting (quello di Riga, che si terrà domani e dopodomani) e dopo che ieri Angela Merkel e Francois Hollande hanno dato gli ultimi 12 giorni di tempo ad Alexis Tsipras per presentare una lista definitiva di misure in grado di rispettare le richieste della “troika” per poter procedere all’erogazione degli ultimi 7,2 miliardi di aiuti.
Giusto per far capire come il clima resti teso mentre le trattative sono in corso, il ministro dell’Economia e finanze tedesco, Wolfgang Schaeuble, ha ammesso oggi in un’intervista che sarebbe molto difficile per lui “ripetere quanto dissi nel 2012, cioè che la Grecia non sarebbe mai andata in default”, mentre il ministro del Lavoro greco, Panos Skourletis, ha altrettanto chiaramente fatto notare che “se ci dovessimo trovare di fronte a un dilemma tra pagare un creditore che si rifiuta di firmare un accordo con noi e un pensionato, pagheremo il pensionato” prospettando la possibilità che Atene non rimborsi (come invece dovrebbe accadere) i 310 milioni di fondi Fmi in scadenza il 5 giugno in mancanza di un accordo con la “troika”.
Ma mentre alcuni non escludono che una mano più o meno sottobanco possa giungere alla Grecia proprio dalla Bce (che anziché irrigidire potrebbe rendere meno stringenti i criteri per concedere nuovi finanziamenti ad Atene, con la stampa britannica che parla di un possibile allargamento di 6 miliardi di euro dei fondi alla banca centrale greca), a molti italiani interesserà capire quanto la Bce con la sua politica stia facendo bene o male al Sud Europa. Tramite il quantitative easing (ossia gli acquisti di bond sul mercato) Mario Draghi e i suoi colleghi un primo risultato in verità l’hanno già ottenuto: hanno rapidamente indebolito l’euro e anche se di recente la valuta unica è rimbalzata, la perdita di valore rispetto al dollaro di circa il 9% (un euro vale stasera poco meno di 1,11 dollari dopo essere arrivato a metà marzo a valerne 1,04). Un aiuto che si è già visto nelle trimestrali sia delle grandi aziende italiane sia europee in genere quotate sui mercati azionari.
Con poco meno dei tre quarti delle trimestrali al 31 marzo già pubblicate, il Sole 24 Ore ha calcolato, mettendo a confronto gli utili riportati con le attese di consenso, che nei primi tre mesi dell’anno le aziende europee abbiano guadagnato circa 44 miliardi di euro in più rispetto a quanto atteso dagli analisti, grazie sia ad un effetto volume (si vendono più unità di prodotti o servizi “made in Europe” nel mondo) sia ad un effetto cambi (riconvertendo dollari o altre valute in euro si sono ottenuti più euro). Chi ha maggiormente beneficiato di questo aiuto? Settori tradizionalmente esportatori come quello automobilistico, quello meccanico di precisione e quello chimico-petrolifero (anche se quest’ultimo ha dovuto scontare il calo delle quotazioni del petrolio). Hanno potuto sorridere anche i produttori di beni di lusso, come alcuni marchi del “made in Italy” dalla Ferrari a Luxottica, da Moncler a Yoox. Incrociando le dita, se Atene e la “troika” troveranno un’intesa la “cura Draghi” potrà continuare a sostenere ancora per qualche trimestre la ripresa anche del “bel paese” e delle sue migliori aziende esportatrici.