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Obama e Romney tra religione, economia e colpi bassi: i consensi calano per entrambi

“Romney è un bugiardo””, Obama è un africano”,” Romney è maschilista”, “Obama è debole”: questa alcune delle ultime dichiarazioni di una campagna elettorale – quella USA – povera di contenuti e giocata sull’effetto, sulla rincorsa delle lobby ebraiche, sulla denigrazione.
A cura di Anna Coluccino
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È il presidente in carica, è nuovamente candidato, è nato negli Stati Uniti, si professa cattolico ma ben il 17% degli statunitensi è convinto che sia mussulmano. Strano caso quello di Barack Obama la cui non religione pare preoccupare i cittadini degli USA molto più del credo religioso effettivamente professato da Mick Romney, ovvero il mormonismo.  A cento giorni dalle elezioni statunitensi, la questione religiosa pare essere centrale nel dibattito politico. E lo è in diversi modi. Ad esempio, l'aspetto religioso rientra in campo sulla questione israelo-palestinese. Romney ha più volte accusato Obama di essere stato troppo molle nella gestione dei rapporti con il Medio Oriente, di non aver sostenuto abbastanza lo stato di Israele, di averlo troppo criticato in pubblico rafforzando i suoi nemici, di avergli fatto mancare l'appoggio diplomatico riguardo le operazioni nei Territori Occupati. E infatti, secondo le ultime dichiarazioni rilasciate dall'attuale presidente degli USA, Israele dovrebbe tornare ai confini del 1967 – gli unici legittimi anche per Nazioni Unite – ma Romney è di tutt'altro avviso e anzi, a suo giudizio, sarebbe ora di spostare ufficialmente la capitale di Israele da Tel Aviv a Gerusalemme, tagliando fuori le altre due religioni che pure la riconoscono come città santa ma che – secondo il candidato repubblicano – non avrebbero diritto di cittadinanza.

Lo scopo di Romney è quello di conquistare l'elettorato ebraico statunitense parzialmente deluso da Obama e desideroso di un appoggio pieno e incondizionato riguardo le intenzioni del prossimo futuro. L'elettorato ebraico negli USA è per lo più composto da potenti lobby economiche, ecco perché – seppur minoritario in termini di voti – costituisce un enorme risorsa dal punto di vista del sostegno economico; ed è stato già calcolato che la cifra di finanziamenti alla campagna elettorale raggiunta da Romney è superiore a quella di Obama. Tra le donazioni più corpose conquistate dal candidato repubblicano si annoverano 100 milioni di dollari provenienti da Sheldon Adelson, re dei casinò di Las Vegas, il quale – appena qualche giorno fa – applaudiva entusiasta un intervento di Romney riguardo il bisogno di Israele di armarsi contro l'Iran, arrivando – se necessario – ad attaccare preventivamente. Il candidato repubblicano sta tentando con ogni mezzo di compiacere i più nazionalisti tra gli ebrei, ma l'obiettivo è conquistare anche gli evangelici, da sempre accesi sostenitori dello stato d'Israele, entrambi potenzialmente indispensabili per conquistare stati come Florida e Ohio. Barack Obama, dal canto suo, prova a mostrare la sua amicizia al governo di Israele, e lo fa rafforzando il piano di cooperazione strategica e inviando il consigliere per la sicurezza Tom Dillon a  Gerusalemme perché presenti al premier Netanyahu i piani d’attacco del Pentagono contro l’Iran "se la diplomazia fallirà". Ma, naturalmente, non è solo la questione israelo-palestinese ad animare il dibattito elettorale made in USA.

L'economia la fa ancora da padrona e ad Obama tocca affrontare la delusione dei suoi elettori circa le disattese promesse di ripresa economica, nonché il favore che – da sempre – gli statunitensi concedono ai cosiddetti self made men. Alcuni sondaggi, infatti, sembrano dimostrare una netta preferenza per Romney limitatamente all'aspetto economico. Essendo stato un uomo d'affari – per quanto al limite se non oltre la legalità, come sottolinea lo staff di Obama – gli statunitensi tendono a considerarlo più adeguato a guidare la ripresa economica. Eppure, al contempo, gli preferiscono l'attuale presidente per quanto riguarda le questioni etico-sociali e la gestione della politica estera. In generale, secondo sondaggisti e analisti, l'attuale presidente degli USA ha ancora un live margine sul suo avversario, ma Romney si fa sempre più vicino e l'argomento economico potrebbe rappresentare un cavallo vincente. La sua campagna a favore della libera impresa, l'esaltazione del settore privato, nonché il piano per il ripristino dei posti di lavoro fanno un certo effetto sugli elettori. Ma Romney è anche pieno di contraddizioni: se, ad esempio, da un lato denigra l'amministrazione Obama per non aver impedito alla Cina di rubare posti di lavoro statunitensi offrendo manodopera a basso costo, dall'altro deve la sua fortuna imprenditoriale proprio alla Cina e ai rapporti di lavoro instaurati con Pechino e basati sulla delocalizzazione. Inoltre, il candidato repubblicano spaventa non poco per le sue posizioni riguardo i temi etici e l'allargamento dei diritti civili.

Insomma, la campagna elettorale procede a colpi di spot e dichiarazioni velenose. I contenuti sono pochissimi, differenti – per lo più – solo in superficie. Mai come stavolta la campagna elettorale si gioca all'insegna del puro spettacolo, e si gioca all'interno dei confini di ciascuno stato. Oltre 224 milioni di dollari sono stati spesi in spot televisivi (un record assoluto) e il focus dell'intera campagna di comunicazione è centrata – per il 70% – su un concetto di dubbia efficacia : "l'altro candidato fa schifo". Pochissimo è stato detto riguardo le questioni programmatiche, ovvero: "cosa intendiamo fare per gli USA", e gli statunitensi cominciano a stancarsi; tant'è vero che – in generale – la percentuale di interesse per entrambi i candidati risulta in netto calo. In generale, gli investimenti pubblicitari più onerosi si concentrano negli stati in bilico: Ohio, Pennsylvania, Michigan… Inutile investire in Texas e California, stati-roccaforte, rispettivamente, dei repubblicani e dei democratici.

Pare insomma che persino il presidente 2.0 per eccellenza abbia dovuto arrendersi all'innegabile evidenza: questa campagna elettorale va gestita localmente, stato per stato, comunità per comunità. Non è più il tempo dei proclami universali. Oltre ad aver perso credibilità quanto a reale capacità di innovare il sistema economico-politico statunitense, Obama deve infatti fronteggiare una crisi economica non risolta e una nascente protesta di massa. A differenza della prima campagna elettorale, in cui l'attuale presidente godette dei favori internazionali, in cui il campo di gioco era sovranazionale, in cui in gioco c'erano la riconquista della credibilità perduta e la promessa di una rivoluzione in senso sociale nella patria del capitalismo, oggi gli Stati Uniti guardano a se stessi e alla propria necessità di sopravvivere al collasso dell'unico sistema che conoscono. Questa campagna elettorale è più che mai "casalinga". I due candidati hanno perciò scelto la via dell'invettiva, della ricerca del marcio; pesanti accuse vengono lanciate giornalmente e senza esclusione di colpi, senza fair play, senza attenzione a ciò che sarebbe politicamente corretto: Romney è un bugiardo, Obama è un africano, Romney è maschilista, Obama è debole, questa la sintesi di alcune delle ultime dichiarazioni. Eppure, come spesso accade nei sistemi bipolari, in questa campagna elettorale le differenze tra i due contendenti si evidenziano esclusivamente nell'atteggiamento nei confronti delle questioni etico-sociali. Su tutti gli altri temi, il gioco è a rincorrersi sulle idee che fanno presa e a svicolare sulle questioni spinose come – ad esempio – il possesso di armi. Dopo i fatti di Denver, ad esempio, nessuno dei due candidati ha voluto prendere una posizione nettamente pro o contro il facile accesso alle armi da fuoco negli USA e così su molte altre questioni. In buona sostanza, i due candidati preferiscono puntare il dito piuttosto che esporsi, il che non è esattamente quel che si aspetterebbe da degli aspiranti leader.

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