Obama annuncia l’intervento in Siria ed Iraq: ma i dubbi (e i rischi) restano tanti
Distruggere l'Is dovunque sia e fino a quando esista. Prima che possa rappresentare una minaccia concreta per gli Usa. Questo in sintesi l'obiettivo dichiarato dal Presidente Usa Barak Obama che, nel discorso alla Nazione pronunciato la notte scorsa, ha chiarito dopo settimane d'incertezza quale sarà la strategia di Washington in relazione all'avanzata dello Stato Islamico in Iraq e Siria. Bombardamenti aerei, supporto ed addestramento delle milizie locali alleate e operazioni di intelligence per individuare e colpire i covi, le basi e le roccaforti dei jihadisti fedeli ad Abu Bakr al-Baghdadi.
Obama ha anche chiarito che in Siria non invierà truppe di terra, mentre in Iraq oltre al numero di consiglieri civili e militari presenti ancora sul territorio iracheno (circa 1550) se ne aggiungeranno altri 475 che contribuiranno ad “identificare” ulteriori obiettivi per i raid dell'aviazione militare.
Sia Obama che John Kerry, volato quest'ultimo proprio ieri notte a Baghdad, hanno anche dato il via ad una strategia internazionale finalizzata alla condivisione dello sforzo bellico necessario a neutralizzare e poi distruggere l'Is, formazione terroristica nota anche con le sigle di Isis e Isil.
“Porteremo avanti una campagna sistematica di raid aerei contro queste formazioni terroriste. Ho voluto chiarire al di la di ogni dubbio che daremo la caccia ai terroristi che minacciano il nostro paese – ha affermato il Presidente Usa durante l'intervento televisivo –. Questo significa che non esiteremo ad agire contro l'Isil in Siria così come in Iraq. Questo è il principio chiave della mia presidenza: se minacci l'America, non troverai nessun paradiso dove nasconderti”.
Alla luce delle parole pronunciate da Obama, la strategia d'intervento Usa in Medio Oriente verrà divisa in due grandi blocchi: quella relativa alla Siria e quella relativa all'Iraq.
L'intervento in Siria
Per quanto riguarda la Siria, il Presidente Usa ha chiarito che ci saranno sia operazioni di antiterrorismo condotte dall'aeronautica militare – attraverso il bombardamento di siti strategici -, sia che verrà dato sostegno alle forze d'opposizione presenti sul territorio di Damasco (forze che si oppongono sia al governo di Bashar al Assad, sia all'avanzata dei fondamentalisti islamici) e che di fatto dovranno combattere sul campo per riconquistare il terreno perduto in questi mesi di avanzata costante delle forze terroriste. La Casa Bianca, al fine di ottenere risultati tangibili, ha stanziato per i combattenti siriani 500 milioni di dollari, cifra che rientra nel piano generale del Fondo per il partenariato antiterrorista e che – secondo secondo fonti ufficiali di Washington – prevede una spesa complessiva pari a 5 miliardi di dollari. Il rischio che l'amministrazione Usa corre in relazione in Siria è che potrebbe involontariamente dare supporto al regime di al Assad, impegnato a sua volta a contrastare l'avanzata dell'Is. Molti osservatori hanno sottolineato quanto possa essere pericoloso armare e addestrare milizie locali che, come accaduto negli ultimi trent'anni in Medio Oriente, potrebbero cambiare velocemente diventando da forze amiche a nemiche (il caso più eclatante e più citato è quello di Osama Bin Laden, capo di al Qaeda, addestrato dagli Usa in chiave anti sovietica in Afghanistan e poi divenuto il ricercato numero uno per Washington). Per questo motivo il Presidente ha ribadito: “Nella lotta contro l'Isil non possiamo contare sul regime di al Assad che ancora terrorizza il suo popolo, un regime che non riconquisterà mai più la legittimità che ha perso. Invece è nostro obiettivo rafforzare l'opposizione come migliore contraltare da opporre alle forze terroristiche. In ogni caso, in Siria, dobbiamo continuare a perseguire una soluzione politica alla crisi siriana al fine di terminarla una volta e per tutte”.
L'intervento in Iraq
E se l'impresa in Siria sembra tutt'altro che semplice, quella in Iraq non appare meno complicata. Sebbene gli Usa possano contare a Baghdad su di un governo sicuramente più amico di quello ancora oggi presente a Damasco (nelle scorse ore si è registrato l'ennesimo cambio della guardia ai vertici del caotico governo iracheno, dimostrando quanto sia ancora lontana dal paese quella la stabilità politica e sociale auspicata all'alba dell'invasione angloamericana del 2003), le divisioni interne tra i rappresentati delle comunità locali, la scarsa competitività in termini militari dell'esercito iracheno rispetto ai miliziani dell'Is, e l'assenza di una guida chiara per il paese compongono un mosaico ancora troppo sfocato per permettere agli Usa di considerare l'Iraq un partner affidabile e capace di portare a termine le missioni affidategli. In ogni caso il Presidente Usa ha autorizzato il Segretario di Stato, alla luce del Foreign Assistance Act, a destinare 25 milioni di dollari per portare assistenza militare al governo iracheno, incluso il governo regionale kurdo, e combattere così l'avanzata dell'Is.
Obama ha infine citato come esempi “vittoriosi” della strategia aerea Usa gli interventi in Yemen e Somalia, dove le forze armate nordamericane hanno utilizzato droni, missili cruise e in casi sporadici raid di terra eseguiti dalle truppe speciali per eradicare le forze locali legate ad al Qaeda, operazioni che tuttavia non hanno prodotto al momento risultati significativi.
Il discorso di Obama comunque sembra convincere poco. Sia perché l'utilizzo dei soli raid aerei (fino ad oggi sono state 154 le operazioni aeree condotte dalle forze Usa) non ha prodotto risultati significativi e durevoli di sorta, in nessuno degli scenari operativi dove sono stati adottati, sia perché affidarsi alle cosiddette risorse locali rappresenta sempre un grande rischio (anche per incapacità da parte occidentale di individuare i partner più adeguati) dalla difficilissima gestione sia in termini di risorse umane che economiche e infine perché i rappresentati della coalizione internazionale che dovrebbe supportare il nuovo sforzo bellico mediorientale (coalizione composta tra gli altri da Germania, Regno Unito, Francia ed Italia), sono rimasti ancorati all'intervento leggero sia in Iraq che in Siria (ovvero tramite l'invio di armi ed equipaggiamenti ai miliziani locali, ma niente di più).