A sei mesi di distanza dall’insediamento di Theresa May come premier britannico, e a quasi sette mese dal referendum in cui il Regno Unito decise – col 52% dei voti – di abbandonare l’Unione Europea, oggi la questione sul come, il quando e il perché della Brexit sono un po’ più chiare. Dopo mesi di insistenze da parte di aziende, media, opposizione e perfino parte del suo stesso partito, il premier conservatore ha finalmente chiarito alcuni punti.
La forma con cui la Brexit potrà avvenire è quella più dura. Il Regno Unito fermerà l’immigrazione dall’Europa, lascerà l’UE. Ma ora sappiamo anche che la Gran Bretagna lascerà il mercato unico assieme all’unione doganale. E alla sovranità delle corti europee. May, inoltre, ha specificato di non volere neanche un accordo di transizione, una soluzione che piaceva a molti dato che le trattative potrebbero richiedere ben più dei 2 anni previsti.
I punti oscuri sono ancora tantissimi. Ma il messaggio di May è stato chiaro: “Siamo pronti a non trovare un accordo piuttosto che firmare un cattivo accordo”. Quanto di tutto ciò sia strategia al momento non è dato saperlo, ma senza dubbio il premier conservatore non potrà più essere accusato di avere idee confuse sulla Brexit. Ora, l’idea del governo è chiara. Il Regno Unito vuole uscire da tutto.
Se lo stop all’immigrazione era già stato chiarito più volte dal governo, ora sappiamo che è inevitabile, ormai, anche l’uscita del Regno Unito dal mercato unico europeo. E quindi il ritorno, senza altri accordi con l’Europa – che però richiederebbero chissà quanti anni – alle tariffe doganali dell’OMC, l’Organizzazione Mondiale del Commercio.
Secondo la presidente di CBI (la Confindustria britannica), Carolyn Faibairn: “Uscire dal mercato unico senza preparazione porterebbe a seri rischi per il paese.” E la preoccupazione non è solo per l’economia, c’è anche il premier della Scozia che da settimane, ormai, ha promesso un nuovo referendum per l’indipendenza del paese in caso di uscita dal mercato unico (La Scozia ha votato in maggioranza per rimanere dentro l’UE). C’è da aspettarsi, dunque, un annuncio sul referendum nei prossimi giorni.
Ma c’è una novità, su cui May ora vuole giocarsi tutto. L’ipotesi che il Regno Unito possa fare un accordo commerciale privilegiato con gli USA. Lo ha annunciato Donald Trump in un’intervista alla rivista britannica Times: “La Brexit è una grande cosa”, ha sostenuto il presidente eletto americano, “Cercheremo di fare un accordo più in fretta possibile”. Un discorso importante, senza dubbio, ma su cui rimangono tantissimi limiti e problematiche.
L’IPOTESI DELL’ACCORDO CON GLI USA. Fra i vari assi nella manica del discorso sulla Brexit, l’ipotesi ventilata dal nuovo presidente americano, Donald Trump, che gli USA possano fare un accordo commerciale con il Regno Unito. “Voglio che si faccia in 6 o 12 mesi”, ha riferito Trump. Se questo dovesse accadere sarebbe, chiaramente, un bel colpo per Theresa May. Ma, ahimé i dubbi e i limiti sono tantissimi. Anzitutto, sappiamo che nessun paese potrà decidere un accordo con il Regno Unito fino a dopo l’uscita del paese dall’Unione Europea.
C’è poi la questione della credibilità di Trump. Sei o dodici mesi non basterebbero neanche per redarre una bozza di accordo, figurarsi firmarne uno. E poi, perché Trump non ha ricevuto il ministro Boris Johnson, in visita negli Stati Uniti la settimana scorsa, se esistono trattative serie fra i due paesi? Dopotutto Trump ha già incontrato Nigel Farage dell’Ukip. Trump, invece, ha rilasciato questa intervista a Michael Gove, che oltre a essere un giornalista per il Times di Rupert Murdoch è anche un parlamentare fra i principali fautori della Brexit – l’unico di rilievo ad essere stato fatto fuori da Theresa May.
I REALI LIMITI A UN POSSIBILE ACCORDO FRA I DUE PAESI. Ma non c’è solo la questione credibilità. Esistono limiti importanti a un accordo “veloce” fra i due paesi. Basti pensare che i tanto vituperati TTIP, e cioè il progetto di un accordo commerciale fra UE e USA, è durato 4 anni e ancora oggi non si vede vicina una sua risoluzione. È difficile pensare, quindi, che in due anni Regno Unito e USA possano risolvere i propri conflitti. Trump non ha ancora preso posizione sui TTIP. Se deciderà di proseguire su quella strada, c’è un chiaro conflitto d’interessi con un accordo britannico. E per gli inglesi?
C’è la questione gli agricoltori: davvero gli operatori del settore vogliono aprirsi alla competizione dai potenti gruppi agricoli americani, nel momento in cui hanno anche perso i fondi europei dell’agricoltura? Nel settore dell’alimentazione, ad esempio, che prevede in UE importanti regolamentazioni, potrà decidere il Regno Unito di introdurre gli OGM, gli organismi geneticamente modificati come in America? E nel settore farmaceutico, una guerra dei potentissimi gruppi americani del settore potrebbe distruggere la sanità pubblica britannica. Ma questa è solo la punta di tanti iceberg che un eventuale accordo dovrebbe risolvere.
L’IPOTESI “SVIZZERA” DEL PARADISO FISCALE. Un’altra ipotesi ventilata dai britannici sarebbe quella di diventare un paradiso fiscale europeo, tagliando con l’accetta le tasse alle imprese e procedendo ad interventi che attirerebbero investimenti da tutto il mondo. “Se non potessimo accedere al mercato europeo”, ha spiegato May, “Saremmo nella condizione di ripensare interamente il nostro sistema economico”. Questa ipotesi, insomma, sarebbe la risposta allo scenario peggiore per tutti: il mancato raggiungimento di un accordo futuro fra Regno Unito e Unione Europea. È una mossa necessaria per Theresa May. Perché implica la possibilità che il suo paese possa abbandonare il tavolo delle trattative con l’UE.
Uno scenario che fino a questo momento è stato dato dai maggiori esperti come improbabile, se non impossibile. Ma si tratta di un bluff o è davvero un’ipotesi fattibile? Da un lato il Regno Unito è già fortemente dipendente dal settore finanziario, e ha già tasse per le imprese fra le più basse al mondo. Ma il punto è che la maggior parte dei business esteri che aprono sedi nel paese, lo fanno come avamposto per l’Unione Europea. Per esportare merci e servizi. Difficile pensare che anche con una regolamentazione finanziaria più elastica di quella attuale, la Gran Bretagna possa attrarre investimenti capaci di sopperire ai danni economici di una uscita dal mercato unico europeo senza un nuovo accordo.
LA STRETTA ALL’IMMIGRAZIONE RIMANE IL CUORE DELLA POLITICA DI THERESA MAY. Forse per interpretare tutto quello che si è detto sopra bisogna tornare al vero fulcro della politica di Theresa May, e dunque della nuova Gran Bretagna della Brexit. Perché il paese non aveva realmente intenzione di diventare una nuova Svizzera, né di cercare un fantomatico accordo commerciale con gli USA. Questi scenari diventano possibili solo alla luce del vero obiettivo di May: fermare una volta per tutte l’immigrazione europea. Nota per le sue posizioni xenofobe, May nei mesi scorsi ha proposto che i medici europei possano venire licenziati per dare lavoro ai britannici, e che le aziende potrebbero compilare dei registri per identificare il personale immigrato.
Nel discorso di oggi, May, ha promesso ancora una volta la fine dell’immigrazione senza limiti. E ha perfino addossato la colpa della crisi dei servizi britannici, in particolare l’emergenza abitativa, agli immigrati – mentendo, dato che i numeri spiegano chiaramente come la crisi dei servizi del paese è dovuta ai tagli al welfare portati avanti negli ultimi anni dal governo conservatore di David Cameron. D’altro canto, May ha avanzato l’ipotesi di garantire la permanenza dei circa 3 milioni di cittadini europei attualmente residenti nel Regno Unito, ma solo a patto che ci sia reciprocità con l’UE in questo.
Nel frattempo, però, poco è stato fatto per le continue aggressioni razziste che sono cresciute nel paese – contro musulmani ed europei, in particolare polacchi – a seguito del referendum sulla Brexit. I dati del ministero degli interni mostrano che questi reati violenti sono aumentati del 41% negli ultimi mesi. L’organizzazione East European Resource Centre (EERC) sta cercando di sensibilizzare i cittadini europei dell’est residenti nel paese a riportare i casi di violenze e aggressioni che non vengono denunciati.
Ma questo non ha portato a una linea più umana del governo verso gli immigrati. Tutt’altro. Nelle ultime settimane sono emerse numerose storie di europei residenti da anni e decenni nel Regno Unito, a cui il ministero degli interni ha inviato lettere con la richiesta di lasciare il paese – dopo che a questi era stato negato il passaporto britannico a causa di disguidi burocratici (per cui lo stesso ministero si è in seguito scusato). Quello che è emerso da queste storie, è la linea dura imposta al ministero contro gli europei, e non importa da quanti anni questi risiedono e pagano le tasse nel paese, non importa se lì hanno coniugi, figli, casa e scuola.
È in questa realtà che si scontrano tutti gli scenari possibili di un paese nuovo, più equo, globale, aperto al mondo, come delineato da May nel suo comizio di oggi. Perché un paese razzista e violento contro gli immigrati, raramente diventa fucina dell’innovazione o attrae investimenti. Anche con questa realtà dovrà fare i conti la Gran Bretagna di May e della Brexit.