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NBA, Marco Belinelli nella storia: primo italiano con l’anello di campione

Storia del talento tricolore che guardava all’NBA già dal 2003. A San Antonio è diventato il primo italiano a vincere il titolo NBA, giocando con l’amico Manu Ginobili, che gli ha fatto da guida nel complesso mondo di coach Gregg Popovich. Perché gli italiani lo fanno meglio ma sempre all’estero.
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Marco Belinelli ha sempre avuto una visione chiara del suo futuro. Nell'estate del 2003, quando è ancora un sedicenne di talento, un bravo ragazzo che sa di essere fortunato, che si sveglia di notte per guardare l'NBA e gioca nella Virtus Bologna con Manu Ginobili senza un contratto da professionista. Perché per lui non è mai stata questione di soldi. Passerà poi alla Fortitudo, dopo il fallimento delle V Nere, per non lasciare l'Emilia e finire la scuola. Il Cinno, il ragazzino, sogna l'America e partecipa al programma NBA without borders con Gallinari e Bargnani e Tony Parker guest coach. Dieci anni dopo tutta San Giovanni in Persiceto, il paese dove è nato, è davanti alla tv. Ma Belinelli non c'è. Belinelli è dall'altra parte del teleschermo. Insieme a Parker e Ginobili, che gli parla in italiano così gli avversari non capiscono, sta entrando nella storia. È il primo italiano a giocare, e a vincere, le Finals NBA. A 28 anni è entrato nella compagnia dell'anello infilando tre vittorie di fila nel 4-1 a Miami e a LeBron James. “È incredibile” ha detto durante i festeggiamenti Belinelli, salito sul podio con la bandiera tricolore. “Dedico tutto questo alla mia famiglia e a chi mi ha sempre sostenuto. Ma lo dedico anche a chi mi ha criticato, a chi ha detto che non avrei fatto strada nella Nba. Tutto questo mi ha dato una grandissima spinta”. L'ultimo tassello l'ha messo l'amico Manu, che gli ha fatto da guida nel Texas e nella visione di coach Popovich.

Il basket targato Pop – Popovich non è un allenatore come gli altri. Ha passato sei anni all'Air Force Academy, ha prestato servizio nell'Europa dell'Est e cullato l'idea di entrare alla CIA, prima di appassionarsi al basket giocando nella squadra dell'esercito. È un solitario, gli piace il profumo delle rose e camminare per i vigneti, ha una cantina con oltre 3 mila bottiglie di vino e spesso va a incontrare i soldati feriti al Brooke Army Medical Center di San Antonio, senza giornalisti e telecamere al seguito. La visione di Popovich, diventato assistente di Larry Brown dopo i primi due anni in un oscuro college di Division III, Pomona-Pitzer, non si limita al basket. Spesso lo vedi interrompere gli allenamenti e mettersi a parlare con i giocatori di politica estera, della situazione in Sudan, o del dibattito interno al partito democratico. E Belinelli, che non è tatuato, non ascolta il rap, non parla slang, non ha il suv con i cerchi in lega da 22”, è un incastro perfetto nel puzzle di Popovich. “È uno student of the game” ha detto di lui Federico Buffa, “ha deciso di rinunciare a un ingaggio più alto pur di andare a Chicago e giocare per la prima volta in un sistema di basket avanzato”. Un sistema, spiega, basato “sul 4 in movimento, ma le nuances dell’attacco sono infinite. Popovich aggiorna il sistema bimestralmente. Non è come stare a Charlotte o Atlanta, che hanno solo 5 set offensivi di base”. Belinelli, che guadagna 3 milioni l'anno ma avrebbe potuto prendere il doppio se avesse accettato l'offerta di Cleveland o Indiana, ha strappato subito i complimenti di Popovich, che non sono proprio sovrabbondanti, soprattutto se giochi in ruolo inflazionato come la guardia tiratrice. “Penso sia un giocatore estremamente sottovalutato” diceva a metà stagione.

“Bello” e possibile – Ci ha messo un po', Belinelli, a farsi amare in America. I 25 punti contro il Dream Team Usa ai Mondiali nipponici del 2007 gli ha aperto le porte dell'NBA, il regno magico che generazioni di giovani hanno solo sognato col poster in camera di Pistol Pete Maravich, di Kareem Abdul Jabbar, di Michael Jordan o Magic Johnson. Scelto come 18mo nel Draft da Golden State, stampa subito la miglior prestazione della storia in Summer League, 37 punti, ma passa più tempo in panchina e a portare le borse dei compagni nelle trasferte al primo anno. Al secondo, invece, dopo l'addio di Baron Davis, Beli diventa l'idolo del pubblico della Baia che lo chiama Rocky per la presunta somiglianza fisica con Rocky Balboa e per qualche parallelo tra la storia del pugile che incarna il sogno americano e quella della riserva italiana, meno celebrata di Bargnani e Gallinari, che inizia a vivere il suo, di sogno. Non vede la panchina come una “diminutio”, però, ma come un'opportunità per crescere. Poi arrivano l’incolore parentesi di Toronto, viene scambiato più per ragioni di marketing, per farlo giocare con Bargnani e scaldare la nutrita comunità italiana, e il trasferimento a New Orleans. Qui Chris Paul gli cambia la vita. CP3, che quest'anno ha frantumato ai Clippers il record di Magic Johnson viaggiando sopra 20 punti e 10 assist nelle prime 10 partite della stagione, gli dà un comandamento semplice: “Quando ti passo la palla mi aspetto che tu faccia canestro ogni volta”. A Chicago, la prima vera squadra da titolo entrata nella sua storia, la squadra del suo idolo Michael Jordan, impara il secondo comandamento del suo sogno americano. Glielo dà Nate Robinson, che l'anno scorso ha piazzato 23 punti nell'ultimo quarto di gara 4 della serie contro i Brooklyn Nets (i Bulls vinceranno 4-3) e mancato di una sola lunghezza il primato di Jordan. Di quella serie resta l'immagine di Belinelli che mostra le sue “big balls”, i suoi grandi attributi, che gli è costata 15 mila dollari di multa. Di Nate Robinson gli restano tre parole: “Nel dubbio, tira”. Tre parole che si sedimentano, che l'hanno portato a diventare quest'anno il quinto miglior tiratore da tre dell'NBA (ne mette dentro uno su due) e a vincere la gara nel tiro da lontano all'All Star Game.

Campione – Così alle 4.45 di lunedì 16 giugno, Marco Belinelli ha portato San Giovanni in Persiceto sul tetto del mondo. Nella notte magica seguita da oltre 400 persone stipate nella bocciofila locale, Belinelli ha risposto presente. Non in prima fila, quella è per Tim Duncan e l'amico Ginobili, che ha piazzato la più bella schiacciata delle Finals. Nella partita che ha consegnato agli Spurs il quinto anello in 15 anni, il Cinno è entrato a 7'28 dalla fine del secondo quarto, con Miami avanti di 5 (28-33) e dopo 90 secondi ha firmato il primo canestro: finta da tre punti, arresto e tiro centrale dalla linea dei sei metri e mezzo, il suo marchio di fabbrica. Marco ha rivisto il parquet a 6’20” dalla fine e infilato un altro bel canestro in entrata. Ha chiuso con 8 minuti in campo, 2/3 da 2 punti, 2 rimbalzi e 1 assist. È stato un po' chiuso nelle rotazioni in finale, ma ha chiuso la stagione della sua piena e definita maturità. Non ha mai perso la speranza e la visione dell'obiettivo, in America, ha cercato il suo centro di gravità anche in Canada, ha accettato di coesistere con la precarietà, è diventato un difensore migliore con coach Thibodeau a Chicago e si è completato nella città dell'assedio a Fort Alamo. Lì, nel 1836, i Texani avevano posto fine alla rivoluzione messicana e iniziato il consolidamento degli Usa come potenza economica. Qui è iniziato il consolidamento di Belinelli, che ha condiviso la gioia con i suoi tifosi su Twitter: "Ho vissuto ogni momento solo per questo".

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