Don Peppe Diana, ucciso dal clan dei Casalesi. Storia di un prete scomodo diventato simbolo
Ciò che resta sono i luoghi, le case, i muri, i nomi delle strade, le statue, i cartelli. Sono gli stessi di allora eppure sono diversi, toponomastica e immagini normalizzati dal trascorrere degli anni, con le macchie di sangue che resistono solo nella memoria di quanti quei tempi li hanno vissuti. E sono sopravvissuti.
All’ingresso, dove il campo sportivo accoglie chiunque arrivi dalla superstrada, c’è l’immagine di un prete che campeggia tra due alberi: “Benvenuti a Casal di Principe, città nativa di don Peppe Diana”. Per entrare in paese bisogna voltare a sinistra e passare sotto a un cavalcavia: proprio quello che durante le stragi del 2008 sovrastava i blindati dell’Esercito, arrivato ai primi di ottobre di quell’anno tragico per dare visibilità al “modello Caserta” e allo Stato che pareva impotente di fronte alla minaccia camorrista. Più avanti, alla rotonda, c’è la statua di papa Giovanni Paolo II, con le braccia levate in segno di pace. Durante quell’ultima guerra era stata spostata chissà dove, dissero per un restauro. Ma in realtà perché era un segno dissonante lì dove i morti si contarono a decine e nessuno si sentiva al sicuro.
Il campo sportivo e la rotonda erano stati anche molto altro: il giocattolo del clan Schiavone, che aveva portato la squadra tra i semiprofessionisti del calcio; le postazioni delle vedette, che avvertivano dell’arrivo di forestieri sospetti: poliziotti, carabinieri, giornalisti.
Prima, prima dell’operazione Spartacus, prima che lo Stato decidesse che era giunta l’ora di affacciarsi in quelle terre abbandonate da Dio e dagli uomini, c’era stato don Peppe. E la sua morte tragica, nella sagrestia della sua chiesa, nel giorno del suo onomastico. Trent’anni fa. E sembra ieri mattina per chi c’era, ma pure è un tempo lontanissimo. Non ancora abbastanza perché si possa scrivere la storia ma sufficiente per uscire dalla cronaca e allargare lo sguardo, ancora daltonico per i colori (i dettagli) che mancano ma non più miope.
I fatti che portarono all'omicidio di don Peppe Diana
Dunque i fatti, ridotti all’osso. Don Giuseppe Diana, 36 anni, era dal 1989 parroco della chiesa di San Nicola di Bari, animatore del gruppo scout di Casal di Principe, firmatario dei due manifesti contro la camorra casalese pubblicati nel luglio e nel dicembre del 1991. “Per amore del mio popolo non tacerò”, aveva scritto, paragonando la camorra al terrorismo”che incute paura, impone le sue leggi e tenta di diventare componente endemica della società campana”.
La mattina del 19 marzo del 1994 viene ucciso mentre si preparava a celebrare la Messa. Qualche anno dopo vengono identificati mandante ed esecutori dell’omicidio: Nunzio De Falco e Giuseppe Quadrano. Indagini e processo vedono la difesa degli imputati impegnata soprattutto nella strisciante e velenosissima opera di diffamazione del giovane sacerdote: aveva le amanti, nascondeva le armi del clan, era un pessimo prete. Robaccia senza fondamento, la stessa utilizzata per tanti anni dalla mafia siciliana per legittimare le morti scomode: delitti d’onore, delitti di serie B.
Trent’anni dopo quel fatto, in occasione di una celebrazione, la cosa più facile da fare è scadere nelle retorica. E invece vogliamo provare a raccontare un’altra storia, che includa quella di don Peppe Diana e del suo popolo, delle sue guerre e della sua rinascita. Innanzitutto il contesto. Quando viene pubblicato il manifesto che invita alla denuncia della camorra e della cattiva politica l’Italia era alla vigilia di Tangentopoli, della fine della prima Repubblica, delle stragi di Capaci e via d’Amelia, dei delitti eccellenti di Palermo. La Chiesa era alla metà del guado, prudente e silenziosa, più don Abbondio che Federico Borromeo. In qualche caso tanto prudente da apparire collusa.
L'eredità lasciata da don Peppe Diana
Il giovane sacerdote di Casal di Principe apparteneva alla nuova generazione, la sua pastorale era quella dell’amore e della libertà dagli oppressori. Un rivoluzionario? Per quel tempo e quel contesto lo era. Votato al martirio? Niente affatto, pur essendo diventato un martire. Un simbolo? Lo è diventato, dopo. Il nome attorno al quale la Casal di Principe delle brave persone ha saputo fare squadra e comunità. Un uomo scomodo, per la Curia vescovile di allora e per il clan dei Casalesi, che in quel periodo esprimeva il massimo della sua potenza: militare, economica, politica. Scomodo come lo era stato don Pino Puglisi, ucciso sei mesi prima di lui nel quartiere Brancaccio, a Palermo, nel giorno del suo compleanno.
Una coincidenza? Piuttosto un segnale. Perché Cosa Nostra e i Casalesi non erano così distanti come la geografia lascerebbe intendere. Erano la stessa cosa, nei suoi vertici e nelle strategie, parte di quel disegno oscuro che ha previsto e attuato le stragi del 1992 e del 1993, quella fallita del gennaio 1994, il cambio di assetto politico, la ricollocazione del Paese nello scacchiere internazionale. Parte di qualcosa che la cronaca ci ha raccontato a spezzoni e che la storia ricostruirà più in là. Forse.
Ma intanto c’è ciò che resta, ed è qualcosa di buono. Quella camorra (e quella mafia) non esiste più. I suoi capi si sono arresi o sono in carcere, condannati all’ergastolo. I loro simboli, come le case blindate, appartengono allo Stato e sono diventate luoghi di cultura, di impegno, di lavoro. In quella intitolata a don Peppe Diana, in via Urano, c’è l’esposizione permanente dei volti di quanti hanno perso la vita da innocenti. Altre sono diventate scuole, teatro, laboratori artigiani. Strutture pubbliche diffuse sull’intero territorio, come non c’erano mai state.
Gli eredi di quei boss, le giovani leve, sono più simili a criminali comuni, interessati ai soldi della droga o del gioco d’azzardo più che all’esercizio del potere. Hanno perso? Quelli di trent’anni fa sì, condannati dallo loro stessa ingordigia, dall’abuso della forza, dalla violenza sacrilega. Quelli di oggi chissà, ma questa volta dovranno contrastare un nome, un simbolo, un popolo.