Quando Totò, Peppino e la malafemmina fu demolito dalla critica cinematografica
«Signorina, veniamo noi con questa mia a dirvi che, scusate se sono poche, ma settecentomila lire, noi ci fanno specie che quest'anno c'è una bella moria delle vacche… come voi ben sapete!».
Chi l'avrebbe mai detto: un pezzo del cinema italiano, l'assortimento migliore tra spalla e comico Peppino De Filippo e Totò, un'ironia napoletana compresa e apprezzata in tutt'Italia tanto da sfidare gli anni, ormai sono quasi 70.
Eppure c'è chi all'epoca, giudicò "Totò, Peppino e la malefemmina" un filmaccio. Una «macchietta», «una farsa grossolana», un film «urlato in dialetto napoletano», «pessimo spettacolo e fumetto della peggiore qualità». La critica è apparsa il 9 settembre del 1956 sull' "Avanti!", il quotidiano socialista che evidentemente cannò clamorosamente l'analisi. L'autore o l'autrice? Non è dato sapere poiché venne usato uno pseudonimo, «Vice», in voga al tempo per celare l'identità di chi faceva a pezzi un'opera.
La critica de "L'Avanti!" al film girato da Camillo Mastrocinque – il suo aiuto regista era un giovane Ettore Scola – con Totò, Peppino e il cantante Tony Renis, che Fanpage.it ha recuperato in originale, "salva" per certi versi il duo comico, definendolo composto «da bravi attori».
Un po' pochino: Totò già all'epoca era un mostro sacro della comicità italiana, seppur bistrattato dalla critica più snob poiché "popolare" e De Filippo era da poco uscito dal trio coi fratelli Eduardo e Titina coi quali aveva spopolato nei teatri di tutt'Italia. Un piccolo ruolo anche per un altro giovane che poi divenne un grande attore italiano: Nino Manfredi.
La trama di "Totò, Peppino e la malafemmina" forse la ricorderete: i fratelli Antonio e Peppino Capone, proprietari terrieri, meridionali e cafoni, devono "richiamare all'ordine" lo studioso nipote Gianni (Teddy Reno), figlio di Lucia (Vittoria Crispo), la loro sorella vedova e laureando in Medicina. Gianni è giovane ed è così innamorato di Marisa (Dorian Gray), prima ballerina di avanspettacolo, da lasciare Napoli per seguirla a Milano.
Il ruolo di Mezzacapo (il grande Mario Castellano, attore amatissimo da Totò) la scena col "ghisa", il vigile urbano davanti al Duomo di Milano («noio, volevam savuar l'indiriss»), la lettera "alla signorina" («nostro nipote è studente che studia…»), la bellissima e struggente canzone "Malafemmina" scritta da un malinconico Totò e cantata da Reno: tutte scene finite a buon diritto nella storia del cinema tricolore.
Però il recensore del giornale del Partito Socialista negli anni Cinquanta non la pensava così. Ecco il testo integrale pubblicato sull'organo di partito del Psi nel settembre 1956:
Si parla tanto della necessità di migliorare il cinema italiano, di ridargli respiro, di liberarlo dai limiti del macchiettismo provinciale.
Ecco, infatti si continuano a fare film come "Totò, Peppino e la malafemmina", una farsa grossolana, urlata in dialetto napoletano dalla prima scena all'ultima, che probabilmente, dato i gusti di gran parte del pubblico, ormai incapace di pretendere dei buoni spettacoli, renderà ai produttori parecchi quattrini.
Se si va avanti così, il mercato cinematografico non avrà più distinzioni, tutto sarà "provincia". Il film in questione è un pessimo spettacolo e fumetto della peggiore qualità, né la presenza di bravi attori come Totò e Peppino De Filippo si fa avvertire, almeno sul piano della buona recitazione.
Di Dorian Gray e Teddy Reno come attori di cinema non mette conto di parlare; si muovono così goffamente a disagio da non riuscire neanche ad irritare. Tutto il resto è meglio dimenticarlo.
Il tempo – forse anche lo stesso Totò lo pensava – è galantuomo. Quel film, che comunque conteneva piccoli e grandi svarioni tecnici, ma errori veniali rispetto alla portata comica, è diventato un classico, rivalutato dalla critica e ancor oggi trasmesso da tv nazionali e locali.