La vita di Mehret e la straordinaria lezione anti-razzista di Eduardo De Filippo
«Agliatello, la vedi questa donna? La vedi? È stata la mia disgrazia. Spose e buoi dei paesi tuoi… ma se dovessi fidanzarmi un’altra volta me la prenderei africana. Razza inferiore!».
Ferdinando Quagliuolo è fuoribondo. Il protagonista della commedia "Non ti pago" di Eduardo De Filippo urla al suo faccendiere queste parole contro la moglie. «La prossima me la prendo africana, razza inferiore!». Il proprietario del Banco Lotto è roso dal demone della scommessa: spende tutti i suoi soldi nel giuoco senza cavarne una lira. E siccome la moglie, la tagliente donna Concetta, non manca occasione di biasimarlo per questa sua costosa ossessione, egli esplode nell'ira e tira in ballo razza e la presunta inferiorità.
La rabbia incontrollata che nasconde altri demoni e genera mostri. Quale miglior modo per far capire quanto il razzismo quotidiano celi in realtà malesseri, paure e disagi di ben altro genere, trasformati nella cosa più facile, ovvero nell'odio di ciò che appare o che si ritiene di dover bollare come diverso?
Questo breve antefatto era d'obbligo, introducendo la bellissima testimonianza di Mehret Tewolde, eritrea di Asmara, raccolta in video da Saverio Tommasi. Mehret è oggi una donna adulta, vive da quarant'anni in Italia e qui ha fatto carriera; custodisce questa bella storia, quello che lei stessa descrive come un grande regalo avuto dalla vita: passare l'adolescenza, circa cinque anni, dal 1979 in poi, all'ombra di una delle figure più rappresentative del Novecento italiano, il drammaturgo napoletano per introdurre il quale basta solo il nome: Eduardo. Questo racconto è una storia di casa De Filippo, per decenni avvolta nel riserbo, una di quelle storie minime che nemmeno nelle biografie più note, come quella storica di Paolo Frascani o quella più moderna e meravigliosamente scritta, di Maurizio Giammusso si ritrova. C'è il sapore dell'epigrafico addio dell' '84 di Taormina, quando il maestro parlò della sua vita come di «sacrifici e gelo» immersi in un cuore che batte e «continuerà a battere anche quando si sarà fermato»: rigore e anche rigidità, coerenza estrema ma tutto avvolto in una grande umanità. Hiwet, mamma della piccola Mehret, era giunta in Italia con l'obiettivo di affidare la figlia ad una situazione più stabile e assicurarle un futuro migliore di quello che avrebbe potuto avere in Eritrea. Dopo pochi mesi dalla partenza di Hiwet dall'Eritrea scoppiò la guerra, e questo probabilmente ritardò il ricongiungimento familiare che però poi fortunatamente avvenne.
Mehret, dunque, racconta: «Incrociai Eduardo De Filippo, per la prima volta, nel camerino del teatro Quirino di Roma, per un colloquio di lavoro della madre, come collaboratrice domestica». Da quel momento il suo percorso fu segnato, come in un romanzo di formazione, il romanzo di una vita all'ombra di un gigante della drammaturgia italiana, dinanzi ad una maschera irripetibile. «Mi ha permesso di diventare me stessa» dice Mehret a Fanpage.it, parlando di Eduardo. «Fu l'uomo della svolta. Ho ricordi di un ‘uomo umano', coerente, di profondità unica, che aveva lo stesso atteggiamento con tutti senza distinzione, a lui interessava la persona». Al primo incontro, presente anche Isabella Quarantotti De Filippo, ultima compagna del drammaturgo, disse: «Isabe' tu parla con questi signori, io tengo che ffa' cu sta criatura». All'epoca Mehret aveva 14 anni e Eduardo che ne aveva 79, si trasformò subito in una specie di ‘nonno'. Un signore serio, scavato, magrissimo che poco meno di vent'anni prima aveva subìto un dolore immenso perdendo improvvisamente una figlioletta che aveva appena 10 anni, la piccola Luisella.
«Non mi ha mai trattato da estranea, non fece cenno alla mia provenienza. Mi faceva domande: come ti chiami e quanti anni hai? Cosa ti piace?», racconta Mehret che svela anche un piccolo provino musicale, quando scoprì che la bambina pensava di poter cantare perché dalle suore le avevano fatto i complimenti per la bella voce. Il provino non andò bene, Eduardo non ne fece un dramma ma non forzò la 14enne a fare qualcosa per la quale non era portata.
Dal pozzo dei ricordi Mehret trae perle che si aggiungono alla già pur vasta aneddotica eduardiana. Stavolta però non è il solito quadretto, in parte smentito dai biografi, del burbero duro e geniale: Eduardo fu uomo affettuoso e formativo, la donna racconta quando egli tentò di far lavorare in teatro Mereth e Hiwet come comparse e dopo tre repliche di uno spettacolo la polizia intervenne per impedirlo: «Tornando a casa mi disse: ‘Merhet, ti chiedo scusa per il mio popolo». Una frase che nella giovane mente della adolescente eritrea fu un riferimento anche per gli anni a venire: «I suoi atteggiamenti – racconta – mi hanno tolto l'alibi che gli italiani siano razzisti, il suo fu un messaggio di possibilità, vale a dire che ci sono ostacoli ma tu vai comunque avanti».
Il razzismo spesso striscia dove meno te lo aspetti. «Una volta gli dissero, ‘Ma come, ti sei messo una negra in casa?'. Eduardo si alzò e si fece gigante, racconta Mehret. Rispose al suo interlocutore col piglio severo, indicando indicando l'uscio col dito: «Se hai di questi problemi, quella è la porta».