Quando Roberto Saviano diede alle stampe il libro "Gomorra", anno 2006, Renato Caiafa, costituitosi per la morte di Arcangelo Correra, 18 anni, ucciso in via Tribunali a Napoli, aveva un anno di vita. Quando dal romanzo è stato realizzato il film omonimo per la regia di Matteo Garrone, di anni ne aveva 3. Quando in tv è andata in onda la serie televisiva, Caiafa di anni ne aveva 9. Tenetene conto quando leggerete il resto di questo articolo.
Ora analizziamo il rapporto tra la produzione di Saviano e i fatti di criminalità giovanile avvenuti in questi mesi a Napoli. Lo facciamo partendo dall'accusa, infamante, mossa a mezzo social network da Fratelli d'Italia, il partito politico che esprime la presidente del Consiglio Giorgia Meloni: «I ragazzi, che emulano i criminali di Gomorra, sono figli del tuo cinismo – è l'accusa di FdI a Saviano -. In nome del denaro, hai trasformato dei criminali in eroi».
Sono anni che una certa politica e una certa società civile tenta di assegnare una responsabilità diretta ai prodotti di fiction televisiva (i film sono meno impattanti, ancor meno i libri) rispetto ad episodi di devianza giovanile. Logicamente non ha senso: non vi sono prove concrete che dimostrino che la visione di "Gomorra", "Mare fuori" o di qualsivoglia serie televisiva causi comportamenti criminali nei giovani. Per "Gomorra" l'accusa è ancor più infamante, visto che il suo autore (anche sceneggiatore nei prodotti audiovisivi) è sotto scorta da decenni a causa di minacce mosse da clan di camorra che ha pubblicamente denunciato e accusato.
Correlazione e causazione: il sonno tranquillo della politica che accusa gli altri
"Gomorra" e i suoi derivati influenza male i ragazzi? Avanguardia pura: se ne parla da quasi vent'anni. La confusione tra correlazione (due cose che accadono insieme) e causazione (una cosa che provoca l'altra) fa dormire sonni tranquilli alla politica, alle forze dell'ordine e alla magistratura. E pure a certi genitori. Il motivo è semplice: se sappiamo che è un telefilm a far diventare "cattivi" i ragazzi allora beh, tutti salvi: non è più colpa degli attori principali nel processo di tenuta sociale e familiare ma solo di sceneggiatori e registi.
Ma facciamo una cosa: utilizziamo lo stesso assunto per altre due fiction popolarissime: "Don Matteo" (impennata di vocazioni?) o per "Mina Settembre" (tutti assistenti sociali?). E no, dicono che non si può. Perché – dicono – solo il male avanza, solo il male tenta e fa cadere i ragazzi. Ma che strano.
Una ricerca di qualche anno fa, "Media Effects on Crime and Crime Style", del dipartimento di Scienze Politiche della Purdue University, forniva elementi molto interessanti che spiegano quanto sia assurdo il salto logico tra influenza culturale e influenza comportamentale. È così banale e assurdo dover validare questo pensiero con una ricerca universitaria, ma il succo è questo: tra il dire e il fare c'è di mezzo un mondo. Le azioni individuali sono influenzate da una complessità di fattori socio-economici, familiari, educativi e personali che vanno ben oltre i libri, le fiction e i film.
Dunque, dice la ricerca, postulare un modello (definito «trigger») che affermi un'influenza diretta dei media sui tassi di criminalità è totalmente smentito dalle evidenze empiriche. I media, semmai, possono aumentare la probabilità che altri criminali adottino stili di crimine simili (è chiamato modello «rudder»), ma non modificano i tassi generali di attività criminale.
Chi è nata prima, la sceneggiatura o la realtà?
E arriviamo alla produzione vera e propria dei prodotti editoriali. Anche qui siamo al livello di «è nato prima l'uovo o la gallina?». È nata prima la violenza, la devianza giovanile o la sceneggiatura del film che ne parla? È una discussione che va avanti dalla notte dei tempi, dal film "Arancia meccanica" di Stanley Kubrick, girato negli anni Settanta. Per quanto possano essere affascinanti, complesse, preconizzatrici, le fiction non sono la bibbia del crimine. Gli sceneggiatori, con una buona dose di immaginazione («con la tecnica non si fa il teatro, si fa il teatro se si ha fantasia», diceva Eduardo De Filippo) ma soprattutto con un grande spirito di osservazione della realtà, prendono quello che è sotto gli occhi di tutte e tutti.
La storia della ragazzina bruciata in Gomorra esisteva già: si chiamava Gelsomina Verde. La puntata sulla Spagna in "Gomorra" rappresenta la vicenda degli Amato, fuoriusciti dal clan Di Lauro che andarono in penisola Iberica per i loro affari. È la realtà che ispira i film, non il contrario. Chi parlava del film "Il camorrista" sostenendo mitizzasse il boss della Nco Raffaele Cutolo, ometteva di dire che per una generazione di affiliati alla Nuova Camorra Organizzata "don Raffaele" era considerato alla stregua di un dio.
Lo specchio dei tempi
Nel "Sindaco del rione Sanità" di Eduardo De Filippo il protagonista, don Antonio Barracano, definiva lo specchio «'o parla ‘nfaccia» dichiarando che lo strumento non avesse remore a mostrarlo per com'è. Lo specchio della società sono i fatti, non le trasposizioni filmiche. In "Apocalittici e Integrati" Umberto Eco sosteneva che il prodotto di consumo diverte non perché riveli qualcosa di nuovo, bensì perché ribadisce ciò che volevamo sentirci dire e sapevamo già.
Beh, ciò che diverte qualcuno evidentemente agita le notti di qualcun altro. Mandare in onda o proiettare le epopee criminali di clan e paranze mostra il "buio omega", la follia di certi modi di vivere che non hanno altro percorso se non il carcere o il camposanto. Parimenti mostra che per decenni non è stato fatto niente su quei territori martoriati. E che – a parte parole e buone intenzioni – la the long and winding road, ovvero il cambiamento dei singoli che necessita di risorse ingenti e di anni di lavoro educativo e sociale non è supportata né dalla pazienza né dai denari pubblici che, evidentemente, vanno ad un modello securitario (Caivano e affini) lasciando le briciole a quello educativo.
A proposito di specchio, ogni qual volta leggo di accuse simili contro uno scrittore o una scrittrice, contro registi e sceneggiatori, viene da citare un altro specchio, quello di una canzone degli Almamegretta: «I' songo ‘o specchio addò nun te vulisse maje guardá». Forse è per questo che un telefilm o addirittura un libro fanno così tanta paura.