C'è una mutazione genetica nella discussione pubblica sui baby rapinatori uccisi dalle forze dell'ordine a Napoli – sì, ormai è una discussione ricorrente visti i casi frequenti -. La mutazione, orribile, è quella di non riuscire più a discutere senza che qualcuno si senta in dovere di emettere sentenza inappellabile. Condanna o assoluzione? La prima è «se l'è cercata, se avesse lavorato tutti i giorni onestamente non sarebbe finito così». La seconda, di segno opposto è «l'agente non doveva sparare, pagherà».
Rassicurerebbe dire che la verità è nel mezzo, ma non è nemmeno così. Non c'è una verità rassicurante, i sonni tranquilli delle persone perbene che sentenziano e restano della loro opinione, per quanto mi riguarda, sono più terrificanti del morto a terra sotto un lenzuolo. Un ragazzo è morto, un poliziotto ricorderà per tutta la vita di avergli piazzato una botta in corpo, è successo tutto durante un tentativo di rapina, il ragazzo è figlio di pregiudicato, il complice è figlio di un narcotrafficante che fino a pochi anni da dettava la legge, osannato – osannato! – da migliaia di ultras allo stadio.
Ditemi che c'è di rassicurante, ditemi come fate a chiudere il cerchio e farlo quadrare, non c'è niente che sia al suo posto: la scuola, i genitori, lo stato di salute di una città.
L’istituto giuridico della “messa alla prova”, possibilità di riparare al danno compiuto da delinquente lavorando e cercando di tornare nella legalità per quanti Luigi è fallito miseramente? Quanto è forte il richiamo della vita che non hai lasciato ma che è lì, tutti i giorni e restituisce un mondo fatto di centinaia di euro facili facili a fronte di una semmana da 50-60 euro portando caffè?
E se si torna a casa e papà sta al 41 bis e mammà fa quello che deve fare per apparare la giornata, dove sta la distanza necessaria tra quella vita da lasciare e la vita nuova da abbracciare? Forse qualcuno pensa che lavorare 5 ore al giorno davanti al forno da pizza possa servire a cambiar testa e tenere lontana la vita di tutti i giorni con la forza che nemmeno un esperto in mediazione trascendentale ha? Beh, non è così, altrimenti ai pizzaiuoli di Napoli davamo pure la laurea in Psicologia e il Premio Nobel per la Pace, non solo il riconoscimento Unesco.
Non c'è rassicurazione, non c'è pace e non c'è tranquillità dopo la morte di un ragazzo. Non è per forza vero che muore giovane chi è caro agli dei e che muore ucciso chi se l'è cercata. A volte la vita sbagliata, semplicemente, accade e per forza d'inerzia, per incapacità e per fattori esterni e propri è impossibile cambiar percorso. A volte la si cerca, ardentemente, la vita sbagliata, a coronamento di una esistenza breve e estrema, consumata a palleggiare con una bomba a mano.
E non ci sta soddisfazione: non è nemmeno «un delinquente di meno». Perché chi muore con così tanta vita davanti sarebbe potuto essere qualsiasi cosa e il contrario di qualsiasi cosa. A diciassette anni è ancora il mondo che sceglie per te. È ancora la città, il vicolo, i genitori, i nonni, la rabbia che sceglie per te, ancora per poco ma è così. Il morto a terra è la constatazione che a Napoli per molta gente una diversa via non c'è. O meglio: è sulla carta , è standardizzata nelle maglie della giustizia ma non è reale, non è vera, è finta, roba per le statistiche delle cooperative sociali e dei ministeri, munnezza buona per i convegni con coffee break.
Dunque è sempre il solito pezzo dopo la morte di un ragazzo – sia esso un rapinatore o un poliziotto -. Finora il trucco del cronista nel contrabbandare la stessa teoria di sempre era che tra un episodio e l'altro sarebbe passato del tempo. Ora nemmeno più quello.