Roberto Saviano racconta le bugie su don Peppe Diana, vittima di camorra, e la condanna dei giornali che lo diffamarono
«Don Diana custodiva le armi della camorra». Era il 28 marzo 2003, e quando questo titolo apparve, la madre di don Peppe Diana, Iolanda, dichiarò: «Così ammazzano un'altra volta mio figlio». Roberto Saviano inizia così il racconto di Giuseppe Diana, per tutti don Peppe, parroco di Casal di Principe, ucciso nel 1994 in sacrestia, mentre si accingeva a dire messa. Ammazzato per il suo impegno anti camorra nella terra del clan dei Casalesi.
«Una ferita che si riapre dopo del tempo, e oggi, 21 anni dopo, arriva finalmente la sentenza del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere: Libra Editrice, editore dei giornali Cronache di Caserta e Cronache di Napoli, è stata condannata per diffamazione e dovrà risarcire con 100mila euro i fratelli di don Peppe, Marisa ed Emilio. Ma c'è di più: Libra Editrice, che ha diffuso queste diffamazioni, ha ricevuto dallo Stato oltre 12 milioni di euro di finanziamenti pubblici negli ultimi dieci anni. Un paradosso che desta scandalo».
«Don Peppe Diana, assassinato il giorno del suo onomastico nel 1994, è stato vittima di cinque colpi di pistola sparati a bruciapelo in sagrestia, un'esecuzione volta a cancellare non solo la sua vita, ma anche il suo volto e la sua memoria. I titoli diffamatori, comparsi anni dopo la sua morte, insinuarono che fosse un complice dei clan camorristici, affermando falsità ormai smentite dalla giustizia. La famiglia denunciò subito, ma la sentenza è arrivata solo dopo due decenni, confermando che quelle accuse erano frutto di un disegno calunnioso e tendenzioso».
«La delegittimazione di don Peppe, ucciso il 19 marzo del 1994, non fu un caso isolato. È una prassi, una strategia che sfrutta la cronaca per delegittimare chi combatte il potere criminale. In quegli anni, don Peppe fu dipinto come un donnaiolo, un pedofilo, un colluso con i camorristi. Persino una semplice foto ricordo, scattata durante una gita scout e conservata nel suo studio, fu trasformata in "prova" di un presunto movente passionale. Titoli come «Don Diana a letto con due donne» e insinuazioni sul suo presunto ruolo di custode delle armi dei clan servirono a screditare un uomo innocente, rendendo più difficile il riconoscimento della sua opera di resistenza contro la camorra».
«Questi articoli, spinti da logiche di propaganda e interesse, mirano a erodere tutto ciò che una persona ha fatto in vita. La delegittimazione non si limita a interrompere la parola di chi combatte il sistema mafioso, ma cerca di riscrivere la sua storia, insinuando dubbi anche dopo la sua morte. Tuttavia, grazie alla determinazione della famiglia, degli amici e di chi ha difeso la memoria di don Peppe, oggi quella parola, quell’operato, sono stati ufficialmente riscattati. La sentenza sancisce definitivamente la sua innocenza, ricordando a tutti che la parola, sebbene fragile, è impossibile da uccidere».
«Don Peppe Diana diceva: "A voi le pistole, a noi la parola". E questa parola, oggi, torna più forte di prima, a testimoniare il sacrificio di un uomo che ha sfidato il potere criminale, pagando con la vita. Nonostante i tentativi di delegittimazione, la sua memoria resta un esempio indelebile per tutti noi».