Roberto Saviano e la strategia del boss Sandokan Schiavone: “Operazione pentimento fallita. Ora il clan ai figli”
Francesco Schiavone, "Sandokan" all'anagrafe di camorra, è tornato al 41bis: percorso di collaborazione già terminato. Non per sua scelta: è lo Stato che ha deciso di fare a meno delle sue dichiarazioni, ritenendole inutili. Si chiude così, dopo i canonici 180 giorni, la vicenda del pentimento del capoclan dei Casalesi, detenuto da 26 anni. Un epilogo che era forse già scritto, sebbene ci fosse ancora una speranza, per quanto piccola, di cavare da lui qualcosa di importante sul clan. Difficile pensare che avrebbe potuto raccontare i retroscena degli avvenimenti recenti, ma avrebbe potuto parlare degli appoggi, dei contatti, dei soldi. E non lo ha fatto.
Il pentimento a metà di Sandokan Schiavone
In un video per Fanpage.it, Roberto Saviano ipotizza quale potrebbe essere stato il ragionamento di Sandokan, che da questa analisi esce come un "pentito a metà". Uno che voleva seguire forse l'esempio del figlio Nicola, anche lui collaboratore, o di Antonio Iovine, ‘o Ninno: "Forse Sandokan pensava di fare come loro: pentirsi, interrompendo il rapporto con il clan, ma non dicendo le cose più gravi". Perché i mafiosi, aggiunge, "sanno che una loro dichiarazione accorcia di 15 anni una indagine giudiziaria. Sanno che, su cento cose, ne possono dire 5 e possono essere considerati comunque preziosi. Sandokan questo voleva fare ma qualcosa probabilmente non ha funzionato". Avrebbe provato a vendersi, insomma, facendo intendere di voler rivelare chissà che, ma al momento di mostrare le carte sarebbe stato evidente che si trattava di un bluff.
I pentiti, infatti, hanno 180 giorni per raccontare tutto quello che sanno. Il limite temporale è stato introdotto con la legge numero 45 del 2001, in materia di collaboratori di giustizia, che ha modificato la legge 15 marzo 1991, numero 82, con l'introduzione dell'articolo 16 quater, che sancisce l'inutilizzabilità delle dichiarazioni rese oltre il termine che scatta dall'inizio della manifestazione della volontà di collaborare; obiettivo della norma, garantire la genuinità della collaborazione ed evitare che le dichiarazioni possano essere strumentalizzate e utilizzate a proprio vantaggio.
Il bacio negato in carcere al figlio
C'è un momento preciso su cui ritorna Roberto Saviano nel video, è quello del confronto tra Emanuele Libero Schiavone e il padre, in carcere. I due si incontrano per un colloquio, c'è il vetro blindato a dividerli. Sandokan dice al figlio che vuole collaborare, Emanuele risponde che così facendo la sua fazione del cartello dei Casalesi perderebbe potere, a vantaggio di quella di San Cipriano d'Aversa. E dice che, pentendosi, metterebbe a rischio la sua vita e quella del fratello, Ivanhoe.
"Emanuele, finito il colloquio, stampa le labbra sul vetro blindato – dice Saviano – e il padre non le bacia, torce il viso. Il bacio è fondamentale, sigilla il silenzio, celebra l'omertà. Spesso accade in pubblico, al momento dell'arresto. Rende uno custode dell'altro: se uno parla, l'altro muore, e viceversa. Rifiutandosi di baciare il figlio, Schiavone è sembrato voler confermare la scelta di pentirsi".
L'arresto di Emanuele Libero Schiavone
Dopo quell'incontro, a Casal di Principe le cose precipitano ed Emanuele Libero finisce nel mirino: sparano col Kalashnikov contro casa sua. Il figlio del capoclan ormai pentito scappa a Napoli insieme a quello che per i carabinieri è il suo alleato nel tentativo di ricostruire il clan e nella preparazione della vendetta; i due vengono arrestati in zona Santa Lucia, sono insieme all'altro fratello, Ivanhoe: "È un arresto per evitare l'esecuzione, lo Stato lo ha salvato. Ma Sandokan sa benissimo che, se parla, i figli verranno uccisi", commenta Saviano.
E ora? Con l'interruzione del percorso di collaborazione, c'è un nuovo punto di partenza: "I figli hanno preso il clan. Emanuele è in carcere e Carmine sta per uscire. Nelle mani della nuova generazione c'è il destino del clan. Ogni singolo figlio di Sandokan ha già fatto cinque, dieci, quindi anni di carcere. Un padre camorrista sa che il destino dei figli è il carcere o la morte. Ma in carcere non è finita, la vita del boss. È un elemento fondamentale. Un boss sa che carcere e morte sono parte della vita che ha scelto. Sa che, quando è in carcere, l'attenzione su di sé diminuisce e può continuare a comandare, anche dal 41bis, che ora ha maglie molto larghe".