L'agro Nocerino-Sarnese è terra di terre. È una piana fertile irrigata dal sudore della fronte di chi dalla notte dei tempi si prende il suo tempo: Semina, attende, raccoglie. È una mappa di colori e odori: il pomodoro di San Marzano, il cipollotto di Nocera, l'arancia di Pagani, il finocchio di Sarno. È terra arricchita e resa viva e vitale da migliaia di immigrati che ad ogni stagione sostengono col loro lavoro, malpagato, sfruttato, sommerso, un'economia che altrimenti come terra bruciata dal sole si inaridirebbe.
Ed è sotto questo cielo che Seid Visin ha deciso, qualche giorno fa, di avere vent'anni per sempre.
Nato in Etiopia, adottato in Italia. Giovane talento del pallone, in un mondo in cui i talenti o sono stelle o supernova nel giro di pochi, decisivi, anni, Seid era stato nelle Giovanili del Milan e del Benevento e ora giocava calcio a 5 nell'Atletico Vitalica. Da calciatore a calcettista.
«Refrattario a vedere il calcio come fonte di guadagno, decubertiano nell'animo, hai fatto della partecipazione l'unica vera vittoria ricercata e la compagnia l'unico compenso di cui avevi bisogno»: così lo ha ricordato con dolcezza Antonio Francese, il dirigente della sua ultima squadra.
Suicidio a vent'anni o a ottanta: non è giusto interpretare secondo il nostro punto di vista. Ma è necessario, in alcuni casi, tentare di capire.
Diventa poi doveroso cercare di capire se chi decide di andarsene lascia nel corso del tempo una serie di tracce, di solchi profondi come segni in una terra da dissodare ma troppo faticosa, troppo dura. Seid Visin negli anni aveva lasciato tante parole. Aveva messo la sua sofferenza nero su bianco, ci ha inchiodati alle nostre responsabilità.
Le sue parole sono sassi scagliati contro un razzismo infame che da tempo ormai non ferisce solo il migrante che arriva col barcone, secondo il più tossico degli immaginari xenofobi, ma fiede chi in questo Paese non ha altra diversità che il colore della pelle. Gli italiani come noi che non sono ancora come noi, agli occhi di certa gente, di troppa gente.
«Goccia d’acqua in confronto all’oceano di sofferenza», così si definiva Seid, vent'anni per sempre. E queste che seguono sono le sue parole. E trovo adatto il monito scritto e pensato per altre storie, da un padre della nostra coscienza d'italiani di oggi, Primo Levi: «Scolpitele nel vostro cuore, stando in casa andando per via, coricandovi alzandovi; ripetetele ai vostri figli».
Sono stato adottato da piccolo. Ricordo che tutti mi amavano. Ovunque fossi, ovunque andassi, tutti si rivolgevano a me con gioia, rispetto e curiosità. Adesso sembra che si sia capovolto tutto. Ovunque io vada, ovunque io sia, sento sulle mie spalle come un macigno il peso degli sguardi scettici, prevenuti, schifati e impauriti delle persone.
Ero riuscito a trovare un lavoro che ho dovuto lasciare perché troppe persone, specie anziane, si rifiutavano di farsi servire da me e, come se non mi sentissi già a disagio, mi additavano anche come responsabile perché molti giovani italiani non trovassero lavoro. Dentro di me è cambiato qualcosa.
Come se mi vergognassi di essere nero come se avessi paura di essere scambiato per un immigrato come se dovessi dimostrare alle persone, che non mi conoscevano, che ero come loro, che ero italiano, bianco.
Non voglio elemosinare commiserazione o pena, ma solo ricordare a me stesso che il disagio e la sofferenza che sto vivendo io sono una goccia d’acqua in confronto all’oceano di sofferenza che sta vivendo chi preferisce morire anziché condurre un’esistenza nella miseria e nell’inferno. Quelle persone che rischiano la vita, e tanti l’hanno già persa, solo per annusare, per assaggiare il sapore di quella che noi chiamiamo semplicemente "Vita".