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Nuovo resoconto dell’eruzione del Vesuvio: la ricerca è dei vulcanologi della Federico II

Due nuovi studi fanno luce sulla cronologia e sulla dinamica dell’eruzione che distrusse la città di Pompei nel 79 d. C. A realizzarli sono stati i vulcanologi della Federico II di Napoli guidati da Claudio Scarpati che a Fanpage.it spiega: “Abbiamo dato una valutazione complessiva che va oltre il dato storico fornito da Plinio”.
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Foto Scabec / FB
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L'eruzione che distrusse Pompei, Ercolano e Stabia nel 79 d.C. si è svolta nell’arco di circa 32 ore e oggi è possibile ricostruirne la cronologia con un’accuratezza inedita. Due nuove ricerche sorelle condotte da un team di vulcanologi dell’Università Federico II di Napoli, recentemente pubblicate sul Journal of the Geological Society, hanno fatto nuova luce sull’evento più catastrofico della nostra storia antica.

Entrambi gli studi, a prima firma del vulcanologo Claudio Scarpati, consentono di avere una visione che non era mai stata così completa sull’eruzione che spazzò via l’antica città di Pompei. Gli studiosi hanno precisato sia la cronologia che il comportamento dell'eruzione, rivelandone la sequenza distruttiva quasi come se la vedessimo al rallentatore.

Raggiunto da Fanpage.it, Scarpati spiega: “L’eruzione si distingue in due fasi.  Precedentemente si riteneva che la principale fosse durata circa 19 ore, noi abbiamo dettagliato la durata delle fasi della seconda parte, dando una valutazione complessiva che va oltre il dato storico fornito da Plinio”.

I risultati della ricerca

Grazie al più antico resoconto disponibile, redatto da Plinio il Giovane e tramandato fino a noi, abbiamo diverse informazioni circa quello che avvenne all'ombra del Vesuvio, ma a seguito del lavoro dei vulcanologi federiciani sappiamo anche come si comportò in cielo la colonna nera dell’eruzione che arrivò a toccare un’altezza pari a 34 chilometri, spiega Scarpati: “Rispetto a quanto ritenuto in precedenza abbiamo scoperto che la colonna eruttiva oscillava, cambiando l’altezza da un minimo di 14 a un massimo di 34 chilometri”.

Gli abitanti dell’epoca sarebbero rimasti impressionati se non avessero dovuto pensare alle correnti di densità piroclastica, correnti di ceneri e detriti con la capacità di viaggiare a parecchi chilometri di velocità, e dalla potenza distruttiva. Durante l’eruzione se ne contano 17. Le prime sono state generate da crolli parziali della colonna eruttiva, cioè dal primo getto vulcanico composto da frammenti di magma e cenere, ma non sono state quelle più distruttive secondo Scarpati: “Le prime correnti piroclastiche sono state di minore intensità, non hanno raggiunto né la città né le pendici del vulcano. Quella che ha distrutto Pompei e Stabia è stata la 13esima, ed è arrivata fino ai Monti Lattari, ne abbiamo trovato i resti a circa 400 metri sul livello del mare”.

Gli esperti hanno anche scoperto che durante una pausa dei flussi piroclastici, durata circa 44 minuti, i cittadini che si erano rifugiati negli edifici durante le prime esplosioni ebbero modo di fuggire.

Per arrivare a dare queste e altre notizie, i ricercatori hanno analizzato la granulometria delle rocce vulcaniche circostanti all’antica Pompei, concentrandosi in particolare sui depositi di pomice.

Le informazioni pubblicate dai vulcanologi arrivano a quasi duemila anni di distanza dalla terribile eruzione, e nonostante l’inedita precisione lasciano ancora molte domande e dubbi. La vera certezza che segue ogni pubblicazione scientifica su quanto accaduto a Pompei è che continuiamo a sapere molto poco di ciò che successe quel giorno.

Il resoconto di Plinio il Giovane

Quanto poco sappiamo sull'eruzione lo dimostra anche uno studio dell’Ingv (Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia) che ha riscritto la data dell’eruzione: precedentemente si pensava fosse avvenuta tra il 24 e il 25 agosto, ma gli esperti l’hanno collocata due mesi più tardi, tra il 24 e il 25 ottobre del 79 d. C.

L’errore, così come tutte le prime informazioni circa l’eruzione arrivano da una lettera che Plinio il Giovane scrisse allo storico Tacito. Plinio, al sicuro nella sua casa nel Golfo di Napoli descrisse l’attività del vulcano restando prudentemente a debita distanza. Lo stesso non può dirsi invece di Plinio il Vecchio, suo zio materno, il quale una volta capito cosa stava accadendo decise di andare verso l’eruzione. Plinio Il Vecchio è stato visto per l’ultima volta dal nipote mentre scompariva in direzione dell’esplosione.

Le eruzioni esplosive più energetiche, come quella verificatasi a Pompei, sono definite proprio “pliniane” dal nome dell’autore che ne ha dato le prime fondamentali informazioni.

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