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Napoli ma non solo: ecco i molti padri dei dissesti comunali

L’analisi della crisi dei Comuni del Mezzogiorno tra pandemia e incapacità amministrativa. Un default che accomuna molti enti locali al Sud a prescindere dal colore politico dell’amministrazione.
A cura di Ugo Marani
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Le cause dei dissesti di bilancio dei Comuni italiani, e di quelli meridionali in particolare, costituiscono argomento di dibattito da almeno un decennio. E non sempre con grande cognizione di causa, poiché le cause non sono sempre ben specificate, sbiadendosi pertanto le responsabilità politiche. A voler essere pedanti il disavanzo di un Ente pubblico cresce nel corso del tempo per una (o più di una) di queste cause: eccesso di spese e/o incapacità di riscossione delle entrate; incremento della spesa per interessi dovuta all’indebitamento preesistente; tagli dell’amministrazione centrale all’amministrazione periferica. Il lettore intuirà la diversità di responsabilità politica anche se, alla fine della storia, l’esito sarà il medesimo: predissesto, dissesto o commissariamento.

Le cause del default al Sud

I Comuni meridionali, ahimè, non si sono fatti mancare nessuna delle cause citate: spesso la storia ha tragicamente inanellato un rosario di cattivi amministratori, il cui lungimirante orizzonte temporale era la spesa per la propria riconferma ed i cui debiti generavano crescenti interessi da pagare alle banche prestatrici. Al tutto poi si accompagnava la ciliegina dei tagli dello Stato, perché l’austerità europea diveniva, inevitabilmente, compressione dei finanziamenti ai Comuni. E da questo "triangolo delle Bermude" non sono sgattaiolate amministrazioni di alcuna latitudine partitica: ad essere realisti (e cinici) più la politica diventa locale più essa drammaticamente si assomiglia. La cartina al tornasole è costituita dal fatto che l’unico criterio distintivo tra comuni non è più il suo colore politico quanto la sua localizzazione geografica. La finanza degli Enti locali evidenzia poche tendenze generalizzate per territorio, e non delle migliori.

Negli ultimi dieci anni si riduce del 21% il numero di dipendenti comunali, ovvero 98mila unità di servizio in meno, nello stesso periodo la spesa per il personale si riduce del 16%, ovvero 2.6 miliardi di euro in meno. Qui si fermano gli elementi di comunanza tra Comuni del settentrione e quelli del meridione. Oggi ha una connotazione territoriale il divario crescente tra i Comuni “poveri” (con minore capacità di spesa) e i Comuni “ricchi” (con maggiore capacità di spesa); un dato pare sintetizzare la tesi sulla eterogeneità regionale: su 1419 comuni italiani con disavanzo certificato, 988 si trovano nel Sud e nelle isole, 270 in Calabria, 271 in Campania, 215 in Sicilia a fronte di 11 in Veneto e 19 in Emilia-Romagna. Si aggiunga che l’obbligo per i Comuni di costituire un “Fondo Crediti di Dubbia Esigibilità” determina per Calabria, Sicilia e Campania una stretta finanziaria di oltre il 200% del valore mediano nazionale.

Gli indicatori della crisi

Si pone dunque un interrogativo di non facile risposta e che dovrebbe coinvolgere la “politica” senza continuare in noiose lamentele su quali siano le caratteristiche strutturali dei Comuni meridionali che determinano una propensione, quale che sia la loro dimensione e l’emanazione partitica, a maturare disavanzi medi elevati. Cominciamo dai Comuni di maggiore dimensione: l’armonizzazione dei sistemi contabili e degli schemi di bilancio degli enti locali consente di calcolare separatamente alcuni indicatori strutturali, i principali sono diciotto per i trentadue comuni più popolosi d’Italia. In generale tutti i grandi Comuni hanno sofferto gli effetti economici della pandemia in termini di mancata riscossione tributaria ma tra questi dodici sono situati nelle regioni meridionali e insulari e questi dodici Comuni presentano, per i diciotto indicatori, valori medi peggiori su quasi tutti i parametri individuati. Nel Mezzogiorno le maggiori carenze di questi Comuni si esprimono, in sintesi, su:

  • Bassa incidenza degli accertamenti fiscali sulle previsioni iniziali. Ovvero: si prevede dovunque a Sud un ammontare di introiti sistematicamente “cosmetico e ottimistico”;
  • Elevata rigidità strutturale di bilancio. Ovvero: le spese per personale sono rigide e il ripiano del debito sempre vincolante;
  • Riscossione delle entrate. Ovvero: la percentuale di esazione su quanto dovuto (le multe, ad esempio) è bassissima.

In ragione di questa mancata performance sei città meridionali su dodici, Messina, Taranto, Catania, Reggio Calabria, Napoli e Salerno, peggiorano nel 2021 la già cattiva performance dell’anno precedente. Obiettività impone, a questo punto, di escludere che all’origine dell’inefficienza e dei disavanzi dei Comuni meridionali vi siano in prevalenza ed esclusivamente i tagli di bilancio della politica di austerità: quest’ultima ha amplificato ed esasperato un problema preesistente di incapacità della classe politica locale. E le sanzioni punitive dello Stato ai Comuni incidono sulle poche voci di spesa che a livello locano erano controllabili: asili nido, trasporti scolastici, welfare locale.  Anche il decreto “aiuti” che cerca di porre rimedio ai bilanci in rosso delle città di medie dimensioni parte da un presupposto ben noto: far da sé tramite incremento dell’addizionale IRPEF, vendita del patrimonio immobiliare, risanamento delle aziende partecipate. Le città destinatarie sono tutte dalle nostre parti:  Salerno, Potenza, Chieti, Vibo Valentia, Lecce, Catanzaro, Andria, Avellino. Già, in testa Salerno, la città baciata dalle politiche della Regione Campania, ma che oggi paga sogni di “grandeur” e rischia il dissesto.

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