L’incubo dei “padri sterminatori”: quando il genitore è capace di uccidere
Li chiamano padri sterminatori perché sono in grado di uccidere davvero. Solo i bambini più fortunati riescono a sopravvivere. Nelle ultime ore, le notizie arrivate dalla provincia di Salerno, il tragico volo dal balcone al terzo piano di una bimba a Fisciano, hanno fatto subito pensare ad una dinamica del genere.
Nel frattempo, l’uomo, quarant’anni, è stato arrestato per tentato omicidio. Mentre la figlia, dopo aver subito un’operazione all’omero, si trova fuori pericolo. Nonostante il volo di tre piani, infatti, potrebbe essere stata salvata dai fili stendibiancheria.
Entrambi i genitori erano nell'abitazione al momento dell’accaduto, ma solamente per il padre sono scattate le manette. Stando ad alcune indiscrezioni, quest'ultimo avrebbe dichiarato: "Sono stato io". Secondo una prima ricostruzione, inoltre, l’uomo stava vestendo la bambina in bagno. Poi il volo dal balcone. Che cosa è accaduto in quei frangenti?
Che cosa scatta nella mente dei padri sterminatori?
Andiamo per gradi, ma accantoniamo sin da subito l'alibi del raptus. Perché, in caso contrario, si dovrebbe catalogare quella stessa follia come uno stato di alienazione tale da indurre un padre a scagliarsi (esclusivamente) contro creature vulnerabili ed inermi.
I padri che uccidono sono uomini che non aggrediscono mai figli adulti, ma neonati e bambini in fisiologiche condizioni di minorata difesa. Creature, si ribadisce per evidenziarne la drammaticità del gesto, a loro legate dal più forte legame che possa esistere: quello genitoriale.
Nessun passaggio repentino e follemente spiegabile dall’amorevolezza all’omicidio (o al suo disperato tentativo). Ciò perché la decisione di uccidere un figlio si palesa gradualmente come possibilità e si concretizza nel momento di maggior escalation di odio e frustrazione. Dunque, una sindrome di Medea che camaleonticamente cambia pelle e traghetta dalla madre al padre.
In attesa che venga chiarito il contesto nel quale è maturato il tentato omicidio della piccola di Fisciano, può affermarsi una regola generale. E cioè che esiste una parte di uomini che non è in grado di tollerare il disgregamento familiare operato della compagna di vita e madre dei loro figli. Perché si nascondono proprio nel senso proprietario della coppia, e per estensione della famiglia, le motivazioni profonde della catena di violenza capace di trasformare uomini apparentemente innocui in padri assassini.
Il fattore scatenante della furia omicida, quindi, coincide con l’intimo convincimento secondo il quale i figli non costituiscono altro di diverso dal prolungamento della madre. Dunque, in quanto tali, si trasformano in oggetti che possono essere annientati. Perché la loro eliminazione ha come unico scopo quello di punire la madre. In questo senso, l’essere che ha messo al mondo non esiste più. Allo stesso modo svanisce quella che in passato era stata idea di famiglia.
Uccidere i propri bambini (o tentare di farlo) è l’unico modo per questi uomini per risolvere un dramma personale. Ai loro occhi, infatti, sono azzerate le possibilità alternative perché solo l’estremo gesto gli consente di riprogrammarsi e riaffermare la loro mascolinità. Consapevoli che condannando la donna a sopravvivere all’omicidio di un figlio la condannano allo strazio permanente e, forse, a preferire la morte. Una condanna senza più appelli quella di un bambino assassinato dall’uomo con cui la stessa madre l’ha generato.
Sono tragedie evitabili? Per fortuna, la piccola precipitata dal balcone è sopravvissuta. Tuttavia, esistono evidenti campanelli d’allarme rispetto a simili tragedie. La storia delle emozioni è chiara nell’affermare come determinate dinamiche violente non siano mai figlie del caso.
Al contrario, nella maggior parte dei casi chi compie simili delitti ha già adoperato violenza nei confronti della partner. Uomini che molto spesso hanno un linguaggio confidenziale con il linguaggio dell’offesa, non solo fisica, ma anche verbale.