Il superboss Sandokan Schiavone non è gravemente malato: perché si è diffusa la voce del tumore
Ormai anziano, sicuramente provato dai 26 anni di detenzione al carcere duro, malato, ma non in fin di vita: la voce che si era diffusa, che voleva Francesco Schiavone "Sandokan" grave per un tumore, è falsa. Priva di fondamento, ma mai smentita per una ratio: è stata usata come pretesto per trasferire il superboss del cartello dei Casalesi in un altro carcere, per avviare il percorso di collaborazione e per non destare sospetti tra gli altri detenuti ma soprattutto nella "sua" Casal di Principe, dove il suo nome era fino a pochi giorni fa il simbolo di un potere camorristico alternativo allo Stato e che non si sarebbe mai piegato alle leggi.
Il pentimento del superboss Sandokan
Schiavone, che all'anagrafe di camorra è diventato "Sandokan" per una vaga somiglianza con la "Tigre della Malesia" impersonata dall'attore Kabir Bedi, si era imposto sul territorio del Casertano tra gli anni '80 e '90, prendendo le redini del clan che fu di Antonio Bardellino. Ha costruito il suo impero criminale a suon di faide e omicidi, e quello economico grazie ad appoggi, infiltrazioni, complicità anche eccellenti che lo hanno portato fino ai grandi appalti come quelli di Rfi, le ferrovie italiane. In galera Sandokan ci è finito nel luglio 1998, quando la Polizia è arrivata al bunker di Casal di Principe dove si nascondeva da latitante, ma da allora non ha mai aperto bocca con gli inquirenti, se non per definirsi un perseguitato, inguaiato dai pentiti che raccontavano falsità su di lui per incassare stipendi statali. Il primo ergastolo è arrivato col maxiprocesso Spartacus, ne sono seguiti ancora 12, più una serie di altre condanne.
Il falso tumore per cambiare carcere
Pochi anni fa Schiavone era stato male e, quando si era saputo, si erano create voci incontrollate (mai ufficialmente confermate ma nemmeno smentite) secondo cui Sandokan era gravissimo, forse addirittura in fin di vita. Notizie prive di fondamento, che però si erano diffuse sulla forza di un contrappasso Dantesco: il superboss di un clan che per decenni ha trafficato coi rifiuti si era ammalato di tumore. Questa circostanza è tornata comoda quando l'ormai 70enne ha deciso di pentirsi: ha permesso il trasferimento, discreto, dal carcere di Parma a quello de L'Aquila, lo stesso dove era stato curato anche Matteo Messina Denaro. E nel quale si trova anche una sezione per i collaboratori di giustizia. La verità è venuta fuori quando si è trattato di porre sotto protezione i suoi familiari rimasti a Casal di Principe: alcuni avrebbero già rifiutato il programma e di lasciare la cittadina del Casertano.