Il rapporto tra la fiction Mare Fuori e i veri Ipm: parla chi coi ragazzi in cella ci è stato davvero
Giovanni Nicois, giornalista professionista, ha potuto conoscere dall'interno la realtà degli istituti penali minorili collaborando a diversi progetti di riabilitazione di giovani detenuti. Nel 2012, con la cooperativa "Il Quadrifoglio", è stato a stretto contatto coi ragazzi della comunità dei Colli Aminei e di Nisida, l'IPM, istituto penale per minorenni che fa da sfondo, pur se non citato alla fiction "Mare Fuori" che oggi spopola su Rai e Netflix fra gli under 18.
Tra i suoi "studenti" anche Emanuele Sibillo, il baby boss che di lì a poco sarebbe diventato il capo della "Paranza dei bambini", e che avrebbe trovato la morte nel 2015, anni dopo, in un agguato in via Oronzo Costa, nella zona del Vasto.
Nicois, lei può probabilmente fornire un ritratto inedito di Emanuele Sibillo, lontano da quella iconografia che lo identifica con la camorra e, più nello specifico, forse nel primo baby boss napoletano. Cosa ricorda di quell'esperienza?
Nella classe c'erano i ragazzi dell'area penale, provenienti da Nisida e dal centro dei Colli Aminei, e quelli che invece arrivavano da contesti di grande disagio sociale; uno di questi ultimi, per quanto possa difficile da immaginare, mi raccontò che non era mai stato in via Caracciolo a vedere il mare. Era una classe molto scolarizzata, i ragazzi sapevano che io rappresentavo le istituzioni e si comportavano in modo rispettoso.
Tra tutti spiccava Emanuele, che all'epoca era nella comunità di Nisida: nella sua logica, che restava incardinata nella visione divisa tra guardi e ladri, era educatissimo. Poi era un ragazzo brillante, intelligente, culturalmente più preparato degli altri, sicuramente meno "guappo" di quanto uno potrebbe immaginare conoscendo quello che è accaduto dopo. Però non voleva andare troppo oltre: seguiva il percorso, ma era come se volesse sottolineare col suo atteggiamento che la sua vita sarebbe stata un'altra; anche gli altri si impegnavano ma non troppo, forse per mantenere una certa distanza, per non riconoscere totalmente lo Stato.
All'epoca Sibillo aveva 17 anni. Meno di tre anni dopo, 20 anni ancora da compiere, era a capo del clan. Cosa non ha funzionato?
Il problema è che, uscito da Nisida, è stato subito riassorbito dall'ambiente criminale da cui proveniva. Non ha trovato sbocchi al di fuori del carcere. La questione è politica e non si può limitare alla parentesi detentiva. Servono pene più severe? Un carcere più duro anche per i ragazzi? Secondo me i percorsi vanno studiati e variati in base al singolo, ma quello che resta fondamentale è il prima e il dopo. Se Emanuele Sibillo fosse rimasto in carcere un altro anno, altri due, non sarebbe cambiato nulla.
In "Mare fuori" vediamo una sorta di proiezione dei clan all'interno delle carceri, con giovanissimi che non solo hanno atteggiamenti da boss ma sono pienamente "operativi" nonostante la detenzione. È una situazione che ha riscontrato?
Dalla mia esperienza diretta, e dai racconti degli operatori, non ho contezza di dinamiche di questo tipo. I ragazzi che ho conosciuto io non erano proiettati verso i clan. Erano, anzi, un gruppo compatto, in cui c'era una sorta di complicità. Svestivano i panni del comando per fare gli studenti. Con loro non abbiamo mai parlato di pentimenti o redenzioni, ma penso che questo derivi dal fatto che non era quello il modo né il luogo e che nessuno avrebbe voluto mostrare agli altri quello che in certi ambienti viene recepito come un segnale di debolezza.
Parliamo in ogni caso di giovani detenuti. Cosa ha notato nei loro atteggiamenti?
Qualcuno voleva darsi un tono, come se volesse mostrare una sorta di caratura criminale o una conoscenza diretta di determinati ambienti. Una volta Emanuele, partendo da quelle che chiamava «le stronzate che scrivono i giornalisti», mi disegnò una mappa delle aree di influenza dei clan, partendo da Caserta per arrivare ai comuni vesuviani.
Durante il corso ne approfittavano per chiedermi di leggere i giornali, ma volevano solo quelli locali: non gli interessava la politica o altro, cercavano la cronaca nera dei quartieri per tenersi aggiornati su quel mondo da cui provenivano. E, quando si incontravano, i ragazzi di Nisida e quelli dei Colli Aminei si comportavano come detenuti adulti: parlavano della mensa, dei colloqui, delle condizioni di detenzione; anche in questo Emanuele era un punto di riferimento, a prescindere dal lato criminale aveva un forte carisma.
Crede che negli ultimi anni la situazione nei minorili sia cambiata, che possa essere più simile a quella dei carceri "per adulti"?
Di sicuro questi ragazzi affrontano una maturazione forzata. Non hanno gli agi a cui sono abituati i ragazzi di oggi e noi alla loro età. Crescono in contesti degradati e cercano di prendere quello che per il loro punto di vista è il meglio. Se un ragazzo entra nel mondo del lavoro a 25 anni, loro invece a 18 hanno già esperienza perché sono stati obbligati a farla dai contesti da cui provengono. Emanuele, quando c'è stata l'opportunità di avere il ruolo di comando, era già pronto.