La fresella napoletana nasce al Borgo Sant’Antonio Abate: Antonio è uno degli ultimi ‘fresellari’
La zona è una di quelle vicino alla stazione di piazza Garibaldi. All’entrata del borgo Sant’Antonio Abate, ‘o buvero, la strada che percorriamo, c’è una piazzetta con un mercato ortofrutticolo; bancarelle e merci di ogni genere ovunque si guardi, un vociare vivace e continuo come sottofondo. In questa cornice, sul portone del civico 116, si legge su un’insegna: “P. Di Paolo – ‘O fresellaro”. Pochi metri nel palazzo e si sente già il profumo di ciò che cuoce in forno. Antonio, un vero e proprio artigiano del cibo napoletano, ci accoglie nella sua bottega, più unica che rara. La sua famiglia lavora in questo piccolo “museo della fresella” da sette generazioni.
Antonio Di Paolo ci spiega cosa gli hanno insegnato suo papà e suo nonno, ci fa vedere foto e oggetti che, dopo quasi due secoli di vita, sono arrivati nelle sue mani. In lui, la passione per questo mestiere è nata per gioco: «Quand’ero bambino – racconta – non esisteva la Playstation. Di mattina andavo a scuola e il pomeriggio lo passavo qui in laboratorio, da quando avevo 9 anni».
Tra le mura di casa sua, amore per la tradizione e trucchi del mestiere si sono tramandati di padre in figlio, per continuare a proporre i sapori di un tempo: «C’è un segreto in ogni ricetta – dice Antonio – ma sempre con ingredienti genuini e lavorazione a mano come presupposti».
La fresella, nella dieta napoletana dai Borbone
A Napoli, questo alimento fece la sua comparsa ai tempi dei Borbone. All’epoca, una delle portate più apprezzate dal re era la zuppa di cozze. Il popolo – che non poteva permettersi di acquistarle – creò una versione più economica del piatto, con dei frutti di mare meno cari, le maruzze. Serviva il tocco finale, un biscotto capace di impregnarsi di brodo, senza rompersi: nacque così la fresella che, da quel momento, irruppe nella dieta dei napoletani. Con il passare degli anni, la situazione è cambiata. Oggi, i fresellari sono scomparsi quasi del tutto e Di Paolo lavora solo con ristoranti e trattorie: «In casa, è un prodotto che mangiamo sempre meno – commenta amaro – ma, chi lo conosce, lo usa sempre. Non ha conservanti o miglioratori di alcun tipo, è naturale al 100% e può essere servita in tanti modi».