In tv una Filumena Marturano meno eduardiana che ammicca a Loren e Mastroianni
A guardarlo con attenzione e speranze, il "Filumena Marturano" portato in prima serata televisiva Rai da Vanessa Scalera e Massimiliano Gallo, con la regia di Francesco Amato, ricorda più "Matrimonio all'Italiana" con Sofia Loren e Marcello Mastroianni e regia di Vittorio De Sica che il dramma di Eduardo De Filippo, uno dei testi teatrali più belli del Novecento italiano, rappresentato in tutto mondo, dagli Stati Uniti alla Russia.
I confronti tra attori passati e presenti non si devono fare. Non è sano, non è giusto. Altro è invece parlare di come sono resi i personaggi rispetto al testo originale. Testo che resta la nostra bussola, altrimenti vale tutto. E invece chi ama Eduardo fa una scelta: non gli va bene tutto.
Altra cosa da dirsi preliminarmente: è sempre bello vedere Eduardo riportato in scena, davanti alle telecamere, sui libri, a fumetti, perfino con le marionette. Così egli vive e continuerà a vivere in eterno, come Beckett, Brecht, Fassbinder, Fo, Ionesco, Pirandello.
«Non ho mai voluto prendere parte a feste e festeggiamenti. Se così non avessi fatto, non avrei potuto scrivere cinquantacinque commedie» ebbe a dire il drammaturgo nel famoso (e ultimo) discorso di Taormina del 1984. A questo sacrificio dobbiamo rispetto. Dunque se c'è qualcuno che riporta in scena Eduardo bisogna esser contenti. Poi, però, non nascondersi nulla.
La grande bugia degli ultimi anni è stato far credere che di Napoli e della sua attuale struttura – che si regge ancora su colonne novecentesche – si potesse fare qualsiasi cosa. L'idea è che rivisitare, reinterpretare, sovvertire, contaminare, rielaborare è bene a prescindere, è progresso.
Tanto, in locandina si scrive piccolino piccolino «tratto dalla commedia di…» e poi si scrive grande grande il nome di Eduardo De Filippo. Un lavoro "liberamente tratto" diventa diretta discendenza dell'originale per assioma. Non è così.
Se non lo avete mai letto, regalatevi "Cantata dei giorni dispari", il libro che raccoglie molti dei testi più famosi. Marturano è così bello, così chiaro che lo si può leggere come un romanzo ed emozionarsi lo stesso. È il testo che è grande. Non ce lo scordiamo mai.
Il copione fornisce un'ampia didascalia preliminare, minuziosissima.
Un capolavoro del teatro italiano, una manna dal cielo per sceneggiatori e scenografi:
In piedi, quasi sulla soglia della camera da letto, le braccia conserte, in atto di sfida, sta Filumena Marturano. Indossa una candida e lunga camicia da notte.
Capelli in disordine e ravviati in fretta. Piedi nudi nelle pantofole scendiletto. I tratti del volto di questa donna sono tormentati: segno di un passato di lotte e di tristezze.
Non ha un aspetto grossolano, Filumena, ma non può nascondere la sua origine plebea: non lo vorrebbe nemmeno.
I suoi gesti sono larghi e aperti; il tono della sua voce è sempre franco e deciso, da donna cosciente, ricca d'intelligenza istintiva e di forza morale, da donna che conosce le leggi della vita a modo suo, e a modo suo le affronta.
Non ha che quarantotto anni, denunziati da qualche filo d'argento alle tempie, non già dagli i occhi che hanno conservato la vivezza giovanile del «nero» napoletano.
Ella è pallida, cadaverica, un po' per la finzione di cui si è fatta protagonista, quella cioè di lasciarsi ritenere prossima alla fine, un po' per la bufera che, ormai, inevitabilmente dovrà affrontare.
Il "Filumena" di Gallo e Scalera è tratto dal testo eduardiano, ma non ne rispetta le tensioni. Non significa che non vi siano state belle prove artistiche.
Però possiamo dire che alcune cose proprio non convincono?
C'è Diana, la giovane "fiamma" di don Domenico, il cui ruolo è stato appesantito per la tv. Poi i tre figli di donna Filomena sono addolciti, quasi macchiettistici. E invece dovrebbeo essere tesi, arrabbiati. Sono «figli di enne enne», imbarazzati da sempre quando devono presentarsi alla gente.
Del resto nel rapporto fra personaggi il testo suggerisce, anzi impone, tensione, rabbia repressa, incomprensione, ragioni che l'altro non conosce.
Lo scrive proprio Eduardo:
Quando va su il sipario, cosi troviamo i quattro personaggi, in questa posizione da «quattro cantoni».
Sembra che stiano li, per divertirsi come dei bimbi; ed è la vita invece che li ha scaraventati cosi, l'uno contro l'altro.
E dove stava tutto questo conflitto nel prodotto da prima serata Rai?
Veniamo al primo dei due monologhi di Filumena, quello della Madonna delle Rose. «…Erano'e tre doppo mezanotte. P' ‘a strada cammenavo io sola».
Un testo così potente che Titina De Filippo nel 1947 fu chiamata a recitarlo dinanzi a Papa Pio XII nella Biblioteca vaticana. Vederlo nella trasposizione televisiva dilacquato, inframezzato dagli amarcord di Filumena, ne svilisce autenticità e senso, ritmo e potenza. Pure a causa della musica d'archi in sottofondo per gran parte del film.
L'avvocato Nocella è più senatore spocchioso che uomo di legge, la scena in cui si parla del matrimonio da sciogliere è sciacquata, scolorita. Filumena scopre la legge «che fa chiagnere», lei non piange perché non sa cosa significhi. Però non ha nulla della maschera da «quieta disperazione», per dirla con Thoreau, voluta da Eduardo.
Pure nella commedia di Sofia Loren e Marcello Mastroianni s'avverte quella tensione. Qui è tutta affidata all'infame musica d'archi che sottolinea il momento, quando invece il testo era già sufficiente. Ma questa è la televisione, bellezza.
Secondo monologo di Filumena, quello dei "bassi". Nel film prodotto da Picomedia manca un pezzo meraviglioso, quello in cui Filumena si rivolge all'avvocato e esordisce parlando della situazione in cui nasce il dramma, ‘e vascie, i bassi, i terranei che dal Dopoguerra ai giorni nostri rappresentano Napoli e il suo sottoproletariato dei vicoli.
Avvoca', ‘e ssapite chilli vascie… I bassi… A San Giuvanniello, a ‘e Virgene, a Furcella, ‘e Tribunale, ‘o Pallunetto!
Nire, affummecate… addò ‘a stagione nun se rispira p' ‘o calore pecché ‘a gente è assaie, e ‘a vvierno ‘o friddo fa sbattere ‘e diente… Addò nun ce sta luce manco a mieziuorno…
L'ultimo terzo del prodotto televisivo Rai vira decisamente sulla libera interpretazione, ben oltre pure il film del 1964, sceneggiato da mostri sacri come Renato Castellani, Tonino Guerra, Leonardo Benvenuti e Piero De Bernardi. «Don Dummì» cerca di individuare quale fra i tre è figlio anche suo e ‘testa' i ragazzi.
Scrive Dario Fo nel fondamentale "Vita di Eduardo", la biografia scritta da Maurizio Giammusso, testo-guida per chiunque voglia capire e sapere:
Insomma, Filumena Marturano è una vicenda che capovolge la logica della morale contingente.
Il protagonista, proprio nel momento in cui sembra un uomo che si è commosso all’idea di essere padre, di aver avuto un rapporto che finalmente ha dato frutto, nel suo modo di agire, anche quando sembra pieno di slancio, resta un figlio di puttana.
Invece il Mimì Soriano televisivo s'arrabbia ma non ha la spocchia, non maneggia il potere che ha avuto e che ha, un potere patriarcale, messo sì alle strette ma pur sempre da patriarca, da borghese; s'anela al lieto fine. Lieto fine che in Filumena c'è, ma pieno d'amarezza, non consolante: quanto c'è voluto, quanto tempo, che sofferenza, quanta vita bruciata c'è voluta per arrivarci, per conoscere «'o bbene» e piangere, finalmente?
Fortunatamente l'interpretazione non ha eccessi da Sergio Castellitto e Massimo Ranieri, il napoletano di Gallo è perfetto. Però non si vede – nel prodotto televisivo mandato in onda con successo da fiction dalla Rai – il passato di Soriano, quello da «signurino don Mimì».
Tre ppiccerille,
sott’a nu mbrello:
duje bruttulille,
n’ato cchiù bello.
Chillu cchiù bello,
cchiù strappatiello,
purtav’ ‘o mbrello
a rras ‘e cappiello.
Chi scrive prova profonda invidia per coloro che poterono assistere alla prima al teatro Eliseo di Roma, mercoledì 8 gennaio 1947 quando Titina ‘esplose' nel ruolo che l'hai poi accompagnata in tutta la sua vita artistica, fino al passaggio di testimone ad un'altra grande attrice, ahimè poco ricordata, Regina Bianchi la Filumena televisiva che nel 1962 ottenne il più alto indice d’ascolto dell’anno.
Riportarsi a ciò che è passato non si può; esser contenti per aver visto in tv nell'anno 2022, una commedia del teatro italiano scritta nel 1946, si deve. Ma non per questo l'entusiasmo (a volte astutamente pilotato) può dominare ogni analisi.
Eduardo non ci deve mica dire grazie perché è riportato in scena! È rappresentato da anni in tante lingue e in tutto il mondo.
In certe produzioni italiane ci si concentra sui protagonisti o sulle scene caratteristiche, non sul rigore del testo (che non significa riproporlo tale e quale).
A Mario Martone e Francesco De Leva col "Sindaco del Rione Sanità" nel 2019 riuscì un piccolo capolavoro, nel rispetto dell'originale. Speriamo nessuno smetta mai di provarci.