Per ritrovare lo spirito di quei tempi – e con esso la forma e la sostanza della palude limacciosa che aveva inghiottito ogni traccia di libertà, democrazia, civile convivenza in provincia di Caserta – non serve scomodare letteratura o studi sociali. Basta affacciarsi, invece, nel sito web della Corte di Cassazione che offre alla libera consultazione migliaia e migliaia di sentenze: gli ultimi sette anni di giustizia civile e penale in Italia. Ed è lì, nella banca dati della Corte di ultima istanza, che si trovano le tracce documentali delle inchieste su politica e camorra in Terra di Lavoro; dei processi, quei pochi ormai conclusi, che hanno ricostruito la verità giudiziaria degli anni di piombo del clan dei Casalesi. C’è anche la vicenda di Nicola Cosentino, ovviamente. E dell’affare “Principe”, il centro commerciale fortissimamente voluto e mai realizzato.
Il centro commerciale Principe voluto e mai costruito
È raccontata nella sentenza a carico di Cipriano Cristiano, medico e sindaco di Casal di Principe dal 2002 al 2009: sentenza di condanna, arrivata a conclusione di un processo celebrato con il rito abbreviato. Sentenza irrevocabile che dice: la camorra fece autonomamente la campagna elettorale per Cristiano, senza accordo con il candidato, perché aveva deciso di puntare su un soggetto debole e malleabile. Tanto debole da acconsentire all’istruttoria del costruendo, e inutile, centro commerciale (cinque milioni e mezzo di lavori) la cui realizzazione doveva essere affidata alla ditta Vian del cognato Nicola Di Caterino (condannato a undici anni in primo grado, morto prima della sentenza di appello).
La Cassazione: "Per il centro commerciale procedura del tutto illegale"
Scrive la Cassazione (VI penale, presidente Giorgio Fidelbo, relatrice Maria Sabina Vigna): “Per realizzare il più volte menzionato centro commerciale «Il Principe», con una procedura del tutto illegale, la camorra aveva necessariamente bisogno dell'aiuto del sindaco e Cristiano, che era il candidato sindaco, aveva partecipato alla riunione decisiva per l'avvio dei lavori ed era andato parlare con l'onorevole Nicola Cosentino, conosciuto come suo referente e al quale era legatissimo, perché intercedesse per ottenere il finanziamento dalla Banca Unicredit per realizzare il predetto centro”. Finanziamento bloccato a causa dell’inaffidabilità finanziaria della Vian e poi concesso, temporalmente dopo l’incontro – documentato da foto – di Nicola Cosentino (che era accompagnato da Luigi Cesaro) con il direttore di Unicredit Roma. Su questo presupposto Cristiano è stato condannato; su questo stesso presupposto il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, nel 2016, aveva condannato l’ex sottosegretario ed ex coordinatore regionale di Forza Italia, Nicola Cosentino, a cinque anni e sei mesi per tentato reimpiego di capitali illeciti, fatto aggravato dalla finalità mafiosa. La Corte di Appello di Napoli (II sezione) ha ribaltato la sentenza e, nel pomeriggio del 29 settembre scorso, assolto sia Cosentino, sia Cristoforo Zara, il funzionario di banca che avallò la pratica.
Cosentino assolto in appello
Dunque? Fino al deposito delle motivazioni è possibile solo azzardare un’ipotesi sulle ragioni della decisione. Ipotesi fondata sul dispositivo della sentenza: assoluzione per non aver commesso il fatto. In parole povere, il fatto (cioè l’operazione “Principe” voluta dalla camorra casalese) è cosa vera ma Cosentino e Zara non sapevano che Vian fosse una ditta infiltrata dal gruppo Schiavone.
A questo breve fact checking, quel tanto che basta a ricondurre su binari processuali una vicenda giudiziaria che era stata vagliata da una quindicina di magistrati (gip, gup, riesame, cassazione, tribunale) ma che si era sempre prestata a una duplice lettura (presupposto, questo, della mancata autorizzazione all’arresto da parte della Camera dei Deputati), manca ancora qualche dato: la decisione della Corte di Appello non è ancora definitiva; a carico di Cosentino – condannato a quattro anni per la corruzione di un agente del carcere di Secondigliano (l’assunzione della figlia in una coop sociale in cambio dell’ingresso in cella di mozzarella, dolci, un iPod) e dieci mesi per diffamazione e violenza privata nei confronti dell'ex governatore della Campania Stefano Caldoro – pende ancora il processo per concorso esterno in associazione camorristica, cosiddetto Eco4. Ciò detto, resta un problema, ormai ineludibile: la scarsa tenuta processuale delle inchieste sul livello politico e imprenditoriale del clan dei Casalesi.
I destini di politici e imprenditori legati a sentenze provvisorie
Nicola Cosentino è il nome eccellente, uomo di governo estromesso irrimediabilmente dal mondo pubblico. Ma non è il solo il cui destino resta appeso al filo di sentenze provvisorie nonostante siano frutto di indagini concluse moltissimi anni fa. Per esempio, Enrico Fabozzi, ex sindaco di Villa Literno, esponente prima dei Ds, poi del Pd, consigliere regionale all’epoca dell’arresto (datato novembre 2011 e relativo a fatti di cinque anni prima). È stato condannato in primo grado nel 2015 a dieci anni per concorso esterno, il processo di appello si sta trascinando da oltre due anni. E ancora, Tommaso Barbato ex senatore dell’Udeur: è di pochi giorni fa la decisione della Cassazione che ha rinviato ad altra Corte di appello gli atti del processo nel quale era stato condannato (sentenza conforme in primo e secondo grado) sempre per concorso esterno. E poi una miriade di piccoli amministratori, di funzionari pubblici, di imprenditori: arrestati, rinviati a giudizio, magari condannati (ma non tutti) in primo grado, assolti in via definitiva.
E poi le decisioni della Cassazione sulle più recenti ordinanze genetiche relative al “terzo livello casalese”: sistematiche bocciature dei metodi di indagine, prevalentemente basate su dichiarazioni di collaboratori di giustizia. Qualcosa, insomma, non va più. E i tempi eccessivi della giustizia non aiutano. Anzi. I contesti nei quali sono maturate le supposte alleanze collusive finiscono per disperdersi in milioni di pagine di atti giudiziari la cui portata finisce, inevitabilmente, per sfuggire a chi non ha mai vissuto quell’epoca: le stragi, gli omicidi eccellenti, gli scandali nel settore dei rifiuti, la compravendita dei voti, il rastrellamento di risorse pubbliche. Non i singoli fatti-reato, ma la consistenza del dominio mafioso casalese su uomini e cose per trent’anni e più.