In principio fu la Scen, piccola impresa di costruzioni con la testa a Casal di Principe e le mani a Giugliano. A quel tempo Francesco Schiavone forse era già chiamato “Sandokan” ma era solo uno dei figliocci di Antonio Bardellino e Mario Iovine, già feroce camorrista ma lontano dai vertici del clan. Era più di quarant’anni fa quando, assieme a un cugino suo coetaneo, Nicola Schiavone, il futuro capo dei Casalesi gettò le fondamenta della holding che avrebbe controllato per decenni il mercato degli appalti pubblici di Stato: fino a pochi mesi fa, almeno fino alla fine del 2019, quando gli ingranaggi del giocattolo si sono rotti per sempre. È accaduto quando la famiglia di Sandokan ha perso pezzi e potere: il boss in carcere dal 1998, condannato all’ergastolo, al 41 bis; il figlio primogenito, Nicola, battezzato dallo zio omonimo, pure ergastolano e poi collaboratore di giustizia, come il fratello Walter; la moglie, Giuseppina Nappa, in protezione, che veste l’abito della dichiarante; altri due figli, Carmine ed Emanuele, in carcere.
È stato così che prima il figlio, poi la moglie (che nel frattempo ha chiesto il divorzio) hanno svelato il trucco: era dai tempi della Scen, e poi dell’Heureka, che i soldi di famiglia servivano a finanziare la rete d’imprese del parente. Soldi che, come aveva argutamente raccontato Giuseppina Nappa, erano stati il lievito madre che aveva fatto crescere e prosperare il colosso dei subappalti di Telecom, Rete Ferroviaria Italiana, Enel. Fino ad arrivare a Bcs, società di consulenza che aveva acquisito contratti fino al 2021, fino a quattro mesi fa.
È finita all’alba di oggi, 3 maggio. I carabinieri di Caserta hanno eseguito, infatti, 35 provvedimenti cautelari (17 di custodia cautelare in carcere, altrettanti ai domiciliari, un obbligo di dimora) firmati dal gip di Napoli Giovanna Cervo e richiesti dai pm Antonello Ardituro e Graziella Arlomede, a conclusione di un’indagine durata due anni e in parte pubblica già da tempo, all’esito di perquisizioni e sequestri. Tra i destinatari delle misure Nicola Schiavone, 68 anni, una carriera da imprenditore, politico, faccendiere, casa e ufficio tra piazza dei Martiri, a Napoli, e Roma; il fratello Vincenzo; uomini di stretta osservanza del clan (come Dante Apicella e i suoi familiari); funzionari di Rfi, come Massimo Iorani. Rfi, che ha già provveduto a licenziare i dipendenti indagati e che viene travolta da un’indagine della Procura antimafia per la seconda volta in un paio di settimane: altre due funzionari, accusati di corruzione, erano stati coinvolti nell’inchiesta sul clan Moccia e gli appalti nelle ferrovie. Rispondono, a vario titolo, di associazione camorristica (Nicola Schiavone e Dante Apicella), concorso esterno, estorsione aggravata, corruzione, turbativa d’asta. Sequestrati ditte, conti correnti, libretti di deposito, immobili, auto, per una stima totale di cinquanta milioni.
Sullo sfondo, come disegnato dai magistrati del Procuratore Giovanni Melillo e dai carabinieri, il mondo parallelo dei facilitatori, uomini dalla grande capacità di relazione nel mondo delle stazioni appaltanti di Stato ed entrature nei palazzi della politica romana. Favori conquistati con piccole ma sistematiche regalìe (dalla mozzarella ai soggiorni in hotel di lusso, dalla cravatta firmata al gioiellino per la signora), con compartecipazioni agli utili, se necessario anche con le minacce. All’obbedienza di logge massoniche con le quali Nicola Schiavone – nelle more diventato professore di qualcosa, con master conseguiti negli Stati Uniti – non ha mai fatto mistero di simpatizzare. Una per tutte, la “Colonna Traiana” di Benevento, con sede anche in Valtellina, una quindicina di anni fa al centro di un’inchiesta poi abortita. Associazione che faceva capo a un funzionario Enel addetto alle certificazioni delle ditte che concorrevano agli appalti.