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Ragazza segregata in casa con le catene: alle radici dell’orrore una famiglia disfunzionale e l’omertà

Ragazza segregata ad Avellino. Che cosa scatta nella mente di una madre che tortura per anni la propria figlia e la annienta in ogni sfera della sua esistenza?
A cura di Anna Vagli
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Immagine di repertorio
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Per un figlio la casa dovrebbe essere il posto più sicuro al mondo. In alcuni casi però può trasformarsi in una vera e propria prigione. Questo è quello che è accaduto ad una giovane ragazza di Aiello del Sabato in provincia di Avellino.

Vengo picchiata da mia madre da quando ne ho ricordo, con calci, pugni, con ogni tipo di oggetto[…] quando avevo sei anni mia madre mi torse un braccio fino a rompermelo[…] mi picchiava sulla schiena con la spina scart della televisione e mi spegneva la sigaretta sul seno.

Parole da brivido. Una testimonianza paragonabile a quella di un detenuto di Guantanamo. Con la differenza che il carceriere in questo caso era il sangue del suo stesso sangue: sua madre. Anni ed anni di vessazioni, insulti e torture di ogni sorta. Tutto sotto gli occhi del padre. Sordo e cieco rispetto ad ogni richiesta di aiuto avanzata dalla figlia.

Degli otto figli ad essere sempre presa di mira era lei e la sorella minore. Ma è stato proprio grazie ad una denuncia di quest’ultima che lo scorso aprile i carabinieri hanno scoperto quanto fosse terribilmente drammatica la situazione in quella casa. Difatti, dopo avervi fatto irruzione, hanno trovato la vittima in catene, legata alla rete del letto e in condizioni igienico sanitarie non descrivibili.

Ma che cosa scatta nella mente di un genitore che si macchia di simili condotte? E che tipo di personalità può celarsi dietro atteggiamenti di tale portata? La risposta è per certi versi logica. In questo senso, sicuramente abbiamo a che fare con una personalità disturbata e con tratti spiccatamente sadici. Perché solo così può definirsi chi, stando ai racconti dalla figlia, prova piacere nello spegnerle le sigarette addosso. Una donna, perché madre non può qualificarsi, che non ha sviluppato l’attaccamento rispetto ai figli che ha partorito. Che poi figli per lei non erano. E neppure affetti, ma solo creature da sottomettere.

All’interno di quello che era diventato un branco, e di cui lei era evidentemente il capo, ha selezionato una preda precisa. Quella bambina, poi diventata adulta, che probabilmente aveva delle caratteristiche che a lei mancavano e per le quali nutriva profonda invidia. Un’invidia distruttiva. Una gelosia tale da portarla negli anni a maturare la decisione di annientare deliberatamente la ragazza in ogni sfera della sua esistenza: fisica e psichica. E non soltanto perché – come dichiarato dalla vittima – la sua discendente portava il nome della suocera. Quello, semmai, è da considerarsi un elemento aggiuntivo.

C’ è di più. In questo meccanismo malato i figli maschi erano considerati alleati per concretizzare il suo piano diabolico: sottomettere le persone a lei legate biologicamente. Persone delle quali gestiva innegabilmente le vite in maniera dispotica.

È spaventoso anche solo provare ad immaginare cosa accadesse in quell’abitazione. Una figlia vittima di una violenza progressiva e inaudita. Costretta a vivere nella totale solitudine e rifiutata da entrambe le figure di riferimento: quelle genitoriali. In un simile quadro, quello che la ragazza ha subito si ripercuoterà inevitabilmente nella sua dimensione psicosociale. E la condannerà ad un elevato rischio di sviluppare un disturbo post traumatico da stress. Quest’ultimo capace di condannare la ragazza a rivivere per tutta la vita le sensazioni e le atrocità subite.

Molti si chiedono perché la sorella minore non abbia denunciato prima. La risposta è tanto semplice quanto drammatica. Anche lei ha subito dei gravi pregiudizi emozionali. Nello specifico, il trauma della soggezione a cui stata sottoposta non poteva che portare all’omertà. Per questo ha impiegato così tanto tempo prima di chiedere aiuto. Chi subisce violenza di tipo progressivo è fisiologicamente paralizzato nel momento in cui si trova ad esternare gli abusi esperiti in prima persona.

Una famiglia, quindi, totalmente disfunzionale. In cui neppure il padre, allo stesso modo responsabile perché rimasto a guardare mentre la figlia gli veniva torturata sotto gli occhi, ha denunciato ciò che avveniva in quella casa degli orrori. È difficile considerarlo una vittima. Appare, piuttosto, un ingranaggio di una macchina degli  orrori azionata dalla moglie carceriera. Indagato per gli stessi reati di quest’ultima, sembrerebbe essere più un complice. Perché così può essere definito un padre che resta inerte anche quando la figlia gli confida di aver ingerito delle pastiglie per togliersi la vita.

C’è un ultimo passaggio da cogliere. Di fronte a fatti di cronaca di questo tipo la narrazione non basta. Non basta perché quanto accaduto in provincia di Avellino evidenzia come troppo spesso si verifichino nel nostro Paese delle mutazioni pericolose della famiglia, che ne mettono a repentaglio i componenti più deboli e fragili. Ma non solo. Quello che è emerso testimonia anche l’inesistenza di un vicinato e di una società capace di tutelare la famiglia stessa. Anche semplicemente controllandola.

Insomma, un’omertà diffusa ed un’indifferenza generalizzata sconcertante. Oltre alla mancanza di una rete di protezione che dovrebbe essere garantita dalle istituzioni. Pronte, queste ultime, evidentemente ad azionare la macchina soltanto quando i danni sono ormai irrimediabili. Quattro anni in quelle condizioni sono interminabili soprattutto considerando che, come confermato dal primo cittadino, la famiglia era attenzionata dai servizi sociali da molto tempo. Eppure, la ragazza era legata con le catene da quattro lunghi anni.

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