In fuga dal terrore, ora in attesa di un nuovo futuro: i profughi dall’Afghanistan a Napoli
Una mamma che tiene in braccio il figlio, senza dover per forza guardarsi intorno e temere. Un bambino che riceve un regalo: forse è la prima volta. Uno ancora più piccolo che mantiene un cestino di balocchi colorato, quasi più grande di lui. Il creaturo ha il pannolino, è piccolo, quindi capirà relativamente poco di ciò che gli accade intorno. Lo possiamo solo ipotizzare: il viaggio in fuga dalla disperazione l'ha fatto lui, mica noi. In foto i suoi occhi sono coperti, com'è giusto. Sono scurissimi, sbarrati, guardano intorno. Chissà cosa ricorderanno di tutto questo.
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Dall'Afghanistan arrivano persone con un carico di storie al momento ascoltate, in parte, soltanto da coloro che hanno il compito di raccogliere ogni utile dettaglio necessario a garantire la migliore accoglienza. A Ponticelli, nella struttura che l'Ospedale del Mare ha impegnato per garantire loro un primo letto e la quarantena necessaria per il Covid, sono arrivati 87 esseri umani estenuati ma salvi, disorientati ma al sicuro. Persone scappate in fretta e furia, persone senza più niente: senza una casa, senza dei soldi, senza una idea di futuro prossimo.
Sono lontani da casa. E lontani tuttavia anche dal timore – che ogni giorno si fa sempre più certezza – che i talebani al potere faranno carne di macello di chi in questi vent'anni ha cercato di costruire un nuovo Paese, una alternativa libera all'estremismo e al terrore.
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Le famiglie sono 20, provenienti da Kabul, sono arrivate soprattutto donne e bambini: 29 i piccoli, di cui due neonati, 27 le madri. Per loro è stata un'alba napoletana, all'ombra del Vesuvio, sono arrivati infatti alle 5 del mattino in bus, provenienti da Roma. La Regione Campania ha fatto predisporre una sorta di "corredo di prima necessità", nel pomeriggio sono arrivati i giocattoli per i bambini.
E ora? Almeno sette giorni nella struttura, poi arriverà l'iter per ottenere lo status di rifugiato per motivi politici. Che significa? Che indietro non si torna: gli afgani giunti in Italia temono di essere perseguitati e uccisi dai talebani. Rientrano tristemente dunque nel pieno dell'articolo 1A della Convenzione di Ginevra del 1951:
Il rifugiato è colui che temendo a ragione di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche, si trova fuori del Paese di cui è cittadino e non può o non vuole, a causa di questo timore, avvalersi della protezione di questo Paese; oppure che, non avendo cittadinanza e trovandosi fuori del Paese in cui aveva residenza abituale a seguito di tali avvenimenti, non può o non vuole tornarvi per il timore di cui sopra.
Ora queste donne, questi bambini, questi uomini, avranno come unico riferimento l'iter del Sistema di accoglienza e integrazione (Sai) ; saranno dunque smistati sul territorio della Campania in una serie di strutture che dovranno accudirli e aiutarli a cambiare vita, per sempre.
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In tutto questo spavento, in questo disorientamento, in questo dolore, alla fine di questo lungo viaggio, i profughi afgani, hanno trovato – anche se non lo sanno – molta solidarietà dai napoletani. Che contattano comuni, associazioni, Regione, anche le redazioni dei giornali, per cercare di capire cosa fare e come farlo.
Per ora la rete di supporto "spicciola", quella che raccoglie generi di prima necessità, indumenti, fornisce ripari temporanei alla bisogna e soldi, non ha ragione di muoversi: il numero di persone è gestibile coi mezzi istituzionali. Ma il futuro è una ipotesi: solo col tempo capiremo come questa enorme e drammatica crisi umanitaria, non la prima e purtroppo nemmeno l'ultima, necessiterà dell'aiuto dei napoletani.