A Napoli la mensa del Carmine, il rifugio per i poveri gestito da volontari

Centinaia di ospiti accolti, ogni giorno. “In piena pandemia più di mille”. Poi servizio di barberia, docce calde e vestiti puliti, uno sportello di ascolto per chi non parla l’italiano. Volontari che lavorano con il sorriso e cittadini che non smettono di donare.
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Era il 13 giugno del 1986 quando la mensa del Carmine apriva i battenti per sfamare i primi indigenti della sua storia. Dodici, tutti napoletani. Oggi, quella stessa mensa è punto di riferimento per centinaia e centinaia di persone, di chissà quante etnie diverse. Oltre a un pasto caldo, offre ai suoi ospiti un taglio di barba e capelli, due volte al mese, e una doccia e degli abiti puliti, ogni settimana. E per annullare ogni distanza dovuta alla lingua c’è uno sportello di prima accoglienza, gestito da un esperto di arabo e dialetti francofoni.

La struttura è mandata avanti da volontari, di cui il 30% “affidati”, persone che hanno avuto qualche inciampo con la legge e a cui lo Stato ha concesso una pena alternativa alla detenzione.

Sono una "squadra fortissimi" che ride, scherza e, soprattutto, lavora sodo. Di buon mattino, dopo il fischio d’inizio della moka, iniziano a preparare il pasto per un intero battaglione, che ogni giorno arriva puntuale alle 12:45. Uno affetta, un altro sta ai fornelli, un altro ancora imbusta. Nei tempi morti, senza che anima viva lo chieda, si pulisce. E la cosa incredibile è che le ore passano, ma i sorrisi no. Nell’aria convivono una leggerezza e una concentrazione disarmanti.

A dirigere c’è padre Francesco Sorrentino, il responsabile, che sembra un po’ lo chef Cannavacciuolo. Ogni tanto fa na’ ‘mmasciata in cucina e controlla la cottura della pasta e ceci che bolle in pentola. Nel menù giornaliero: primo, secondo, contorno, pane, frutta e acqua. Certe volte pure il dessert. Le porzioni, inutile dirlo, sono quelle della nonna.

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Insomma, il motore di questa macchina sono i volontari. La benzina? La solidarietà dei privati. Montagne di pane e pasta, frutta e verdura, vassoi stracolmi di dolci: tutto fresco e ricevuto in donazione. «Nella prima fase della pandemia – racconta Sorrentino – siamo andati avanti solo grazie alla bontà degli italiani, che non hanno mai smesso di inviarci aiuti». Mirko lavora nella cucina della mensa da un paio d’anni e ricorda bene quel periodo: «Preparavamo più di mille pasti al giorno e si tornava a casa almeno alle 4 del pomeriggio».

Adesso, per fortuna, i numeri sono diversi. Nel giorno della nostra visita arrivano un centinaio di ospiti, forse centocinquanta. Alle 12:45 si recita una preghiera tutti insieme e poi inizia la distribuzione. In questi momenti si tocca con mano la reale povertà. Quella che ti fa dormire rannicchiato sotto un portico, camminare senza scarpe, litigare per un pezzo di pane. Quella che non va in vacanza e ha bisogno di cure, incessanti: «È ciò che ci porta qui ogni giorno – dice Lina, volontaria – Di sofferenza, vera sofferenza, ce n’è tanta. E occuparsene significa arricchirsi per davvero».

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