Il Terremoto in Irpinia e Basilicata del 23 novembre 1980: ritorno nei luoghi del sisma

Il terremoto del 23 novembre 1980 in Campania e Basilicata, con epicentro in Irpinia, causò quasi 3000 morti e 300 mila sfollati, finiti in tende, container, case prefabbricate. Un reportage che ripercorre la storia di un evento che ha segnato un prima e un dopo in Campania.
A cura di Redazione Napoli
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di Antonio Musella, Gaia Martignetti e Peppe Pace

Ci sono avvenimenti che segnano uno spartiacque. Lo fanno per la comunità globale, come la pandemia da Coronavirus che stiamo vivendo. E lo fanno anche per le comunità locali. Il terremoto del 23 novembre del 1980 in Irpinia fu uno spartiacque: c'è un pre terremoto e un post terremoto. Un evento che portò con se 2981 morti, 8800 feriti e 280 mila sfollati finiti in tende, baracche, container, case prefabbricate, alcune delle quali, 40 anni dopo, sono ancora in piedi.

La legge 219 per il post terremoto, pianificata dalla Democrazia Cristiana del tempo, segnò la fortuna del politici campani, da Ciriaco De Mita, divenuto poi Presidente del Consiglio, a Paolo Cirino Pomicino, presidente della commissione bilancio che erogava i fondi del post sisma. Il piano era quello di portare l'industria nelle aree interne della Campania e case per tutti a Napoli e provincia. La commissione d'inchiesta sul post terremoto, presieduta da Oscar Luigi Scalfaro, nel 1992 raccontò che con la legge 219 si sperperarono, anche con importanti fenomeni di corruzione, 60 mila miliardi delle vecchie lire, 30 miliardi di euro di oggi.

Una pioggia di soldi, gestiti dalla banche, che arrivarono agli imprenditori del Nord per portare gli stabilimenti al Sud, che nel giro di pochi anni furono abbandonati. A Napoli, guidata al tempo dalle giunte del Partito Comunista, sorsero i quartieri ghetto che vediamo oggi, da Ponticelli a Scampia, trasformando l'idea di dare una casa a tanti nella creazione di dormitori di cemento prefabbricato immersi nel degrado. Abbiamo provato a ripercorrere 40 anni di storia che hanno segnato, offeso e deturpato un territorio, per arrivare alle speranze che germogliano oggi.

Quel 23 novembre e l'odissea dei soccorsi

La scossa di magnitudo 6.9 della scala Richter spazzò via interi paesi, nelle provincie di Avellino, Salerno e Potenza, ingenti furono anche i danni nella provincia di Benevento e nella città di Napoli, dove il crollo di un palazzo a Poggioreale provocò la morte di 53 persone, ma migliaia furono le case irrimediabilmente danneggiate.

Lo scrittore Franco Arminio, irpino, ricorda così quel 23 novembre: "Il bar Corrado a Sant'Angelo dei Lombardi era il più famoso, ci andavano tutti i giovani. Quel pomeriggio davano in Tv la differita della partita Juventus – Inter, quindi alle 19:34 erano tutti lì dentro. Quando arrivai li davanti trovai una distesa di cadaveri sporchi di terra e polvere, avevano iniziato a estrarre le persone dalle macerie. Avevo 20 anni, e per la prima volta vidi un cadavere". A Napoli invece la scossa fu anticipata da un presagio funesto, come racconta Antonio Bassolino, ex Sindaco ed al tempo segretario regionale del Partito Comunista: "Faceva un caldo tremendo – racconta – era una giornata da andare a fare il bagno a mare. Nel pomeriggio, passeggiavo su via Filangieri e via dei Mille e vidi un sole enorme. Era proprio enorme, così grande che sembrava che volesse sovrastare le case e cadere sulla città. Ricordo che dentro di me ebbi una sensazione singolare. Un turbamento. E poi alle 19:34 un minuto e mezzo di terremoto forte".

Al tempo la Protezione Civile non esisteva, ed erano degli speciali reparti dell'esercito addetti al primo soccorso, erano 24 unità di cui 18 al Nord e solo 1 al Sud. Fu un disastro, arrivarono con giorni e giorni di ritardo. Don Vitaliano della Sala, oggi vice presidente della Caritas di Avellino, originario di Mercogliano ci racconta cosa successe dopo: "E' difficile spiegare oggi a un giovane cos'era l'Italia di 40 anni fa. Non c'erano i cellulari, non c'erano le strade, i soccorsi erano lasciati alla gente del posto che estraeva i corpi dalla macerie senza mezzi. La stessa popolazione non si aspettava grandi aiuti, perché l'intero paese non era organizzato per una catastrofe come il terremoto".

Migliaia di morti e lo Stato sembrava non esserci. Arrivarono volontari da tutta Italia, si autorganizzarono insieme alla popolazione locale per portare aiuto, per scavare a mani nude tra le case distrutte. Un momento di grande solidarietà dal basso che coinvolse tutto il paese. Ma da soli non potevano farcela. "Da quei territori chiamai Enrico Berlinguer – ricorda Bassolino – e gli dissi che che la situazione era molto peggio di come la raccontavano le televisioni, era una tragedia, c'erano migliaia di morti. Subito dopo Berlinguer chiamò il Presidente della Repubblica Sandro Pertini. Il Presidente venne nelle zone terremotate e fece una sfuriata contro i ritardi sui soccorsi. E finalmente qualcosa si smosse, comparve lo Stato che fino a quel momento sembrava essere scomparso". La visita di Pertini, che fu accolto dalla popolazione come un padre, smosse l'acque.

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La legge 219: il fallimento del post terremoto

Nei mesi successivi in Irpinia nacquero i comitati di base: "Contrattavano con le autorità tutto – spiega Antonello Petrillo, sociologo dell'Università Suor Orsola Benincasa – dalla distribuzione degli aiuti, al posizionamento delle tende, riuscivano ad avere un grande potere contrattuale, l'idea era quella di una ricostruzione dal basso". Ma le idee della politica erano altre. "Si doveva fare ricostruzione e sviluppo – racconta Arminio – la ricostruzione forse c'è stata anche, ma lo sviluppo assai meno, anche perché era proprio sbagliata l'idea che questi paesi potessero diventare grandi, lì dove c'erano 1000 abitanti era sbagliato pensare che ce ne dovessero stare 2000". La legge 219 fu lo strumento che pianificò la ricostruzione. Costruire case per chi le aveva perse, come nella zona dell'epicentro, ma anche per chi non le aveva, come nell'area metropolitana di Napoli. L'idea per l'Irpinia era quella di portare l'industria in montagna, coinvolgere gli imprenditori del Nord nella pioggia di soldi della ricostruzione.Il sistema era semplice, non c'era un progetto e nemmeno un bilancio, si otteneva dallo Stato il 75% dell'opera che si voleva costruire a fondo perduto.

"Vennero fuori delle vere e proprie assurdità" spiega Perillo. "Ci fu il caso della Nautica Tormene, una fabbrica che avrebbe dovuto produrre barche in vetroresina, ma che fu posizionata a Morra De Santis, sullo spartiacque preciso dell'appennino meridionale, da dove si vedevano i due mari, l'Adriatico e il Tirreno. Oppure la Iato, che doveva essere la risposta italiana alla Suzuki. A Nusco si creò questo stabilimento che doveva produrre fuoristrada che dovevano essere venduti alle forze dell'ordine e all'esercito. Ne furono prodotti 188 esemplari, ma rimasero tutti allineati sul piazzale dell'azienda, nessuno li volle più. Avevano una particolarità, quando li mettevi in moto, il motore cascava a terra, si rompeva proprio. Ed ancora la Isochimica di Avellino, che decoibentava dall'amianto le carrozze delle Ferrovie dello Stato, senza protezioni, senza mascherine per gli operai, tra una scuola e un campo di calcio. Ancora oggi non sappiamo quel milione di tonnellate di amianto dove sia esattamente finito".

La maggior parte degli stabilimenti fallì in pochi anni, altri invece furono chiusi dai proprietari, smontati e portati al Nord dove furono reinstallate le imprese. "Ci fu un arrembaggio – sottolinea Don Vitaliano Della Sala – quello che poi abbiamo visto nei terremoti recenti, con imprenditori senza scrupoli che vedevano guadagni facili. Ecco nel 1980 non c'erano i cellulari e le intercettazioni, ma sono sicuro che anche quella notte qualche imprenditore sorrise davanti a quelle scene di morte, intravedendo soldi facili".

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La commissione d'inchiesta: "60 mila miliardi di vecchie lire sprecati"

Mentre la ricostruzione accumula ritardi e l'industrializzazione fallisce miseramente, nel 1988 viene istituita la commissione bicamerale d'inchiesta sul post terremoto in Irpinia, presieduta da Oscar Luigi Scalfaro, che poi diventerà Presidente della Repubblica, che concluderà i lavori nel 1992. Giovanni Russo Spena, parlamentare prima di Democrazia Proletaria e poi di Rifondazione Comunista,fu membro di quella commissione: "Mangiavano un po' tutti, dal segretario del grande partito, gli uomini di governo, le grandi imprese, fino ad arrivare al piccolo subappaltatore del paesino". Una vera e propria economia della catastrofe fu alimentata dal flusso di denaro del post terremoto in Irpinia, che costruì anche le fortune politiche degli uomini della Democrazia Cristiana e rimpinguò le casse dei grandi gruppi industriali del Nord. "La cittadinanza italiana ha speso 60 mila miliardi di vecchie lire (30 miliardi di euro) per 1200 posti di lavoro – spiega Russo Spena – in settori decotti, con imprese che sono arrivate, poi hanno chiuso l'azienda, licenziato gli operai e portato tutto a Biella, Vimercate. Era un sistema di potere, c'era De Mita, Pino Gargani, Salverino De Vito in Irpinia, Antonio Gava e Paolo Cirino Pomicino a Napoli, poi c'erano i pezzi grossi di Confindustria, come la Fiat e i grossi imprenditori edili napoletani, Brancaccio, Della Morte e Ferlaino".

Soprattutto è grazie al terremoto che la criminalità diventa imprenditoria, si compie quella trasformazione della camorra e della mafia che grazie ai rapporti con la politica: "Quella notte la camorra cambia pelle – spiega Bassolino – è da quella notte che la camorra fa il salto di qualità". Tra quegli imprenditori che parteciparono al post terremoto c'erano anche i "Cavalieri di Catania", definiti dal giornalista Pippo Fava, ucciso dalla mafia nel 1984, "i quattro cavalieri dell'apocalisse mafiosa", Francesco Finocchiaro, Gaetano Graci, Carmelo Costanzo e Mario Rendo. "Questi erano considerati dei grandi imprenditori al tempo – spiega Russo Spena – i soldi venivano dati attraverso un'intermediazione bancaria". E tra le banche che fecero fortuna con la legge 219 del post terremoto c'era la Banca Popolare dell'Irpinia, di cui era socio proprio Ciriaco De Mita.

I quartieri "ghetto" e le case prefabbricate

La ricostruzione, lenta, affannosa, lacunosa, legata allo sperpero di denaro pubblico, ha attraversato tutti gli anni '80 e '90. A Napoli sorsero la maggior parte delle palazzine e dei rioni popolari che oggi compongono lo skyline dei quartieri più degradati della città, a Ponticelli, San Giovanni a Teduccio, Scampia, Miano, Secondigliano, Piscinola, Marianella. Il famigerato "Rione terzo mondo", il Rione dei Fiori, per decenni fortino del clan Di Lauro di Secondigliano nacque con la legge 219, così come il Rione De Gasperi a Ponticelli, soprannominato "il Bronx". "L'idea era quella di dare la casa a tante e tante persone – spiega Bassolino – ma non si trattava dell'attuazione di un progetto di edilizia, ma quel progetto andava accompagnato con politiche sociali, possibilità di sviluppo e lavoro per il territorio".

Fu un fallimento colossale di cui anche gli amministratori del PCI, di cui Bassolino era segretario regionale fino al 1983, portano la responsabilità. "Fu dal 23 novembre del 1980 – sottolinea Bassolino – che si avviò la fase calante dell'amministrazione Valenzi a Napoli e delle giunte comuniste".  In Irpinia invece i container e le case prefabbricate ospiteranno uomini e donne colpite dal terremoto per decenni. Ancora oggi a Montella (Av) ci sono i container e ad Avellino, nel quartiere di Valle, ci sono ancora le case prefabbricate. "Queste abitazioni dovevano essere una soluzione abitativa definitiva – racconta la giornalista Giulia D'Argenio per lungo tempo la gente ha pensato che fosse provvisoria. Le strutture di metallo su cui sono poggiate la case stanno cedendo, l'umidità è una piaga perché è come se si vivesse in strada. D'inverno fa freddissimo e d'estate fa caldissimo".  Ma nei prefabbricati del post sisma o nei container che sono ancora in piedi, non ci sono solo i terremotati, dopo 40 anni: "Spesso si tratta di famiglie senza casa che sono entrati nei container o in case prefabbricati del post sisma per necessità. Una sorta di terremoto nel terremoto" spiega Don Vitaliano.

L'Irpinia di oggi: la scommessa dei giovani

Una storia di 40 anni fatta di molteplici elementi negativi, paesi spopolati e senza anima: "In alcuni paesi – ci precisa lo scrittore Franco Arminio – non sono state ricostruite case, ma una sorta di catalogo di materiale edile, alcuni paesi sono un campionario di maniglie, porte, finestre, ma il paese non c'è più". Molti di quei paesi sono oggi spopolati, altri pezzi di territorio hanno visto l'abbandono delle cattedrali nel deserto, altri ancora dopo la chiusura delle fabbriche hanno visto l'inquinamento del territorio. Ma la speranza di oggi sono le seconde generazioni che in Irpinia ci stanno ritornando dopo aver fatto esperienza altrove e proprio dalla loro terra vogliono ripartire.

Il registro delle imprese vinicole della provincia di Avellino oggi conta circa 300 attività, ce lo racconta Roberto De Filippis che di mestiere fa l'oste: "C'è tutto un gruppo di giovani e giovanissimi, trentenni e quarantenni che rientra e prova a mettere al centro le attività peculiari del territorio. C'è anche una grossa mole di denaro che si sta concentrando sul settore del vino e della produzione biologica". Sono quelli nati tra il 1980 e il 1990, che sono scappati dall'Irpinia senza prospettive del post terremoto, quella del fallimento della ricostruzione e dello sviluppo, e ora ci ritornano come scommessa di vita: "Non ci sono sostegni, non c'è welfare in tutto questo, c'è una generazione che vuole andare oltre le misure calate dall'alto, e ci sta riuscendo" sottolinea De Filippis. Il futuro si vive con speranza: "Qualcuno verrà a prendersi queste case – conclude Arminio – qualcuno verrà ad abitare questi posti, chi sta con entusiasmo in questi luoghi. L'Irpinia ha bisogno di persone affezionate all'Irpinia".

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