Che in Italia (e in Europa) vi siano “troppe banche, troppi marchi e che ci sarà una concentrazione nel settore del credito” lo sanno tutti e sono tutti d’accordo, come ha ammesso oggi l’amministratore delegato di Ubi Banca, Victor Massiah, durante conference call di commento dei risultati semestrali con gli analisti. Tuttavia, ha notato Massiah, fare operazioni straordinarie “è difficile” e “ci sarà molto lavoro da fare prima di vedere il consolidamento, perché nessuno vuole fare la mossa sbagliata e questa è la ragione per cui anche noi non abbiamo fatto nessuna mossa”.
La sensazione è comunque che qualcosa potrebbe muoversi, forse già dal prosisimo autunno: Ubi Banca è infatti da almeno un paio d’anni tirata puntualmente in ballo come potenziale “cavaliera bianco” per questo o quell’istituto in difficoltà, da Mps a Banca Carige. Ma quanto alla possibile partecipazione al processo di consolidamento di Ubi Banca, Massiah ha frenato nuovamente: “Penso che nel giro di due o tre anni ci sarà un consolidamento, ma se mi chiedete quando e come, onestamente, non lo so”, l’importante è che con fusioni e acquisizioni si crei e non si distrugga valore per gli azionisti.
L’ultima ipotesi circolata riguarda un maxi progetto di integrazione a tre con Mps, Ubi Banca e il gruppo Unipol, cui fa capo Unipol Banca, asset per il quale da tempo il gruppo bolognese sta cercando un acquirente. L’ipotesi non è del tutto campata per aria visto che più volte, l’ultima stamane, l’amministratore delegato Carlo Cimbri ha ricordato che Unipol sta valutando se partecipare al “risiko” bancario, avendone le possibilità (Unipol vale in borsa circa 1,7 miliardi, la controllata UnipolSai altri 4 miliardi, contro i 760 milioni scarsi di Mps e i 2,2 miliardi scarsi di Ubi Banca), pur non cercando quote di maggioranza.
In alternativa un altro soggetto che sembra dover cercare un partner per rafforzarsi è Banca Carige: il semestre si è chiuso con una perdita netta di 206,1 milioni a causa di 344,5 milioni di rettifiche su crediti, effettuate a seguito della verifica della Bce, e dell’integrale svalutazione dell'avviamento della controllata Banca Cesare Ponti (che lo scorso anno era stata sul punto di essere ceduta a pretendenti come Banco Santander o Banca Finnat, ma che venne mantenuta nel gruppo per la “buona redditività”) per 19,9 milioni di euro.
Carige ha un portafoglio crediti deteriorati (Npl) di 7miliardi lordi con una copertura in aumento di 3,2 punti percentuali rispetto a fine 2015 al 45,6%. Nel dettaglio le sole sofferenze sono pari a 3,7 miliardi lordi (1,4 miliardi netti) con una copertura del 60,7%, mentre le inadempienze probabili sono salite a 3,1 miliardi lordi (2,2 miliardi netti) con copertura portata dal 24,2% al 30,1%, come dire che se non si riusciranno a cedere le sofferenze per almeno il 39% del loro valore nominale (o le inadempienze probabili per il 70% circa del loro valore) la banca andrà incontro a nuove perdite.
Perdite che potrebbero indurre il lancio di un aumento di capitale che Giuseppe Tesauro, chiamato da Vittorio Malacalza alla presidenza dell’istituto, ha ribadito più volte sarà fatto “solo se necessario”. Dovendo la banca procedere a dismettere almeno 1,8 miliardi di sofferenze entro il 2017 (sempre che a fine anno la Bce, al termine della Srep, non chieda di alzare la posta come già fatto con Mps) ed essendo attualmente il valore di mercato di tali asset pari al 20%, in attesa di vedere se Mps riuscirà a cederle al 32% al fondo Atlante 2, che comunque difficilmente avrà ulteriori risorse per acquistare con altrettanta “generosità” da altri istituti, il rischio è che da qui a un anno l’istituto debba spesare almeno altri 250-300 milioni di perdite e/o svalutazioni.
A qual punto cosa succederà? Si andrà alle nozze col gruppo Bpm-Banco Popolare, come ipotizzato alcuni mesi fa, si strizzerà l’occhiolino a Ubi Banca (ed eventualmente Unipol e Mps), o si chiederà ai soci di mettere mano al portafoglio nuovamente? Di certo, come dice Massiah, una concentrazione è inevitabile, ma sui tempi e sui modi la nebbia resta fitta nella “foresta pietrificata” del credito italiano.