Ha senso morire per l’Euro(pa)? Secondo Paul Krugman, premio Nobel per l’economia e columnist di lunga data del New York Times, non ne vale proprio la pena. Commentando la crisi del debito sovrano che attanaglia da oltre un anno e mezzo il vecchio continente e che rischia di far deragliare definitivamente quel minimo di ripresa vista finora, Krugman dalle pagine del quotidiano americano spiega: “se non fosse tragica, l’attuale crisi economica europea sarebbe comica”, visto che mentre crollano uno dopo l’altro ipotetici piani di salvataggio, “i pomposi e autoreferenziali leader europei appaiono sempre più ridicoli” (oltre che, aggiungo io, del tutto inefficienti a svolgere la propria funzione).
Messa così è difficile dare torto a Krugman, il che porta a prevedere che qualche nuova “manovra” si renderà inevitabile, sia che porti effettivamente all’agognato rilancio economico sia che si riveli effimera come le precedenti. Ma quanto costerà (e a chi) varare, ad esempio, la prevista nuova “stretta” sulle pensioni? Cifre ufficiali al momento non ce ne sono dato che il governo è bloccato dal “niet” della Lega Nord e che le soluzioni allo studio sono tuttora molteplici: si va dall’aumento dell’età di pensionamento per le donne nel privato al taglio delle pensioni di reversibilità, delle pensioni d’oro e dei baby pensioni. Facciamo allora noi due calcoli.
Nel primo caso si tratterebbe di anticipare l’entrata a regime delle norme già approvate ad agosto che prevedono l’innalzamento dell’età di vecchiaia a 65 anni per tutti entro il 2014 (partendo dal 2012) anziché scaglionandolo fino al 2026. Ammesso che si trovi l’accordo per riuscirvi sarebbero disponibili varie alternative che secondo le ultime voci andrebbero dall’anticipo della “quota 97” (ossia di un requisito minimo di 61 anni di età e 36 anni di contributi) al 2012 dal 2013 fino all’introduzione di una “quota 100” che eleverebbe il requisito minimo ad un mix di 60 anni di età e 40 anni di contributi (o formule equivalenti).
Per inciso l’Inps nel 2009 (ultimi dati ufficiali disponibili) ha erogato oltre 12,094 pensioni di vecchiaia per oltre 178 miliardi di euro, pari ad un importo medio di 14.752 euro annui lordi per pensionato. Toccare invece le pensioni di reversibilità e gli assegni di accompagnamento significa toccare circa 4,9 milioni di pensionati che sono costati (sempre nel 2009) circa 37,9 miliardi (per un importo medio di 7.741 euro all’anno).
Nell’uno come nell’altro caso sono sicuramente possibili manovre (visto che secondo l’Inps quasi il 25% dei pensionati gode di almeno due pensioni, il 6,6% di tre pensioni e un 1,4% di quattro o più pensioni), ma dati gli importi medi non elevati il rischio di trovare soluzioni non eque né sostenibili (o, detta in altri termini, di limitarsi a scaricare il peso del mantenimento di alcuni milioni di anziani non abbienti dalle spalle del settore pubblico alle famiglie) è concreto. Non sono invece disponibili statistiche certe sul peso rappresentato da “pensioni d’oro” e “baby pensionati” (coloro che sono potuti andare in pensione prima dei 50 anni di età), anche se probabilmente vi sono anche in questo caso margini di manovra, quanto meno per dare la sensazione di una manovra meno iniqua di quella che d’acchito sembrerebbe profilarsi nel caso di un taglio generalizzato delle prestazioni.
Che il governo trovi o meno l’accordo al suo interno e coi partner europei, la vera soluzione strutturale resterebbe naturalmente quella di agire sul fronte del mercato del lavoro, creando le condizioni per assunzioni stabili di un numero crescente di lavoratori qualificati, ben pagati e in grado di fare carriera (e quindi accumulare contributi, grazie ai quali godere di pensioni più elevate in futuro). Peccato che in questi anni si sia provveduto solo nel senso di tagli alle prestazioni e innalzamento delle aliquote contributive o dei coefficienti rivalutativi dei contributi stessi, mentre la base di lavoratori attivi (che col vecchio sistema retributivo di fatto pagavano la pensione ai lavoratori in quiescenza) è andata via via assottigliandosi.
Ancora una volta, insomma, non sembra valere la pena morire per questa Europa o per lo meno per l’interpretazione dell’Europa che questa classe politica (e imprenditoriale) sta dando da anni. Recuperare la fiducia dei mercati è necessario, ma per riuscirvi occorre avere il coraggio di adottare le giuste ricette e ridare prospettive a famiglie e imprese, senza le quali ogni taglio offrirà solo un temporaneo beneficio destinato a lasciare spazio a nuovi tagli in futuro, finché non ci sarà più nulla da tagliare e ciascuno dovrà fare da sé.
Varrebbe tuttavia la pena di ricordare che ogni soluzione non è “neutra” rispetto al quadro esistente e prospettico, visto che, ad esempio, le pensioni di vecchiaia sono prevalentemente al Nord (197 pensionati di questa tipologia ogni mille abitanti, contro i 172 del centro e i 143 del Sud), quelle di invalidità al Sud (35 pensionati ogni mille abitanti, contro i 15 del Nord e i 24 del Centro) e quelle dei superstiti, ossia di reversibilità, sembrano le più omogenee (oscillando tra i 63 e i 66 pensionati ogni mille abitanti in tutta Italia).
Il che ad un tempo stesso spiega meglio del semplice calcolo economico la resistenza della Lega Nord (e dei sindacati) ad ogni ipotesi di “taglio” delle pensioni di vecchiaia, ma rischia di consegnarci all’ennesima manovra che guarda ad un passato nel frattempo scomparso, quello in cui grandi aziende (per lo più al Nord) impiegavano masse di lavoratori a tempo indeterminato calcolandone la futura pensione in base alla retribuzione corrisposta: uno scenario molto diverso da quello presente e probabilmente dal futuro, non solo dell’Italia.